martedì 30 dicembre 2008

UNA STELLA E UN DESIDERIO

Qualche desiderio particolare per l'anno a venire ? No, non ne custodisco uno di preciso: credo sempre di più che i sogni aiutino a costruire, perchè nella realtà del giorno non svaniscono, ma divengono idee motrici, e potrei citare qualche esempio capitato anche a me in questa prima parte di vita. Di più non saprei augurare anche a te che mi stai leggendo. Il passato recente è stato difficile, il prossimo futuro sarà duro, almeno così prevedono gli esperti (?) analisti socio-economici del nostro tempo. Io, più umilmente, dico: difendiamo il buonumore e la nostra cultura, sono due cose che nessuno ci può portare via. E per la voce Amore, ricordo che S. Agostino sosteneva che se ami davvero, dopo sei libero di fare tutto il resto. Io, caro lettore, mi sento con tutto il cuore di consigliarti modestamente: cerca di ricordarti sempre di chi ti ha voluto del bene. E il cielo di domani così forse ti apparirà meno scuro.

venerdì 26 dicembre 2008

LA CULTURA NON E' UN LUSSO

Inquietante: soltanto 41 italiani su 100 hanno letto un libro nell'ultimo anno, la stragrande maggioranza - ovvero il 59 % - si è ben guardato dal farlo. E comunque, manco a dirlo, a leggere di più son sempre le donne: l’Istat, infatti, ha rilevato che negli ultimi 12 mesi il 50% delle donne ha letto almeno un libro (contro il 37,7% degli uomini). Tale tendenza è ancor più accentuata tra i 18-19enni (dove addirittura il 68,1% delle ragazze dichiara di leggere contro il 40,4% dei ragazzi) e i 20-24enni (dove il gap scende a 25,1 punti). La cultura è prima di tutto una difesa. Un popolo di ignoranti è una facile preda per populisti e demagoghi.

giovedì 25 dicembre 2008

MADRE

Nel giorno della Natività e della vera Festa della Famiglia, dedico una poesia alla figura della Madre e al doloroso senso della lenta perdita di un figlio donato alla Vita.

Le cadde dalle ginocchia come un gomitolo di lana.
Si sdipanava in fretta e fuggiva alla cieca.
Lei reggeva l’inizio della vita. Lo girava intorno all’anulare
come un anello voleva proteggerlo.

Lui si srotolava per scoscesi pendii talvolta
si arrampicava verso l’alto. Arrivava aggrovigliato
e taceva.
Mai più farà ritorno sul dolce trono delle sue
ginocchia.
Le mani protese risplendono nel buio come

una città antica.

Zbigniew Herbert, poeta polacco (1924-1998)

IL NATALE NON HA COLPA

Tutti lo sappiamo: ci sono Natali che erodono il cuore. Forse bisognerebbe vietarlo ai maggiori di dodici anni. Ma forse non dobbiamo nemmeno farci ingannare dai capelli candidi, dalle rughe, dalla verità ufficiale in cui pretendono che crediamo, come nemmeno da tutto ciò che la vita ha reso in quel che siamo adesso.
Non è colpa del Natale: dobbiamo continuare a pensare che ciascuno resta sempre uguale a sé stesso, che la strada che ci immaginiamo è riservata soltanto a ognuno di noi, e che per percorrerla dobbiamo continuare a credere anche nei sogni che sfumano ogni giorno.

mercoledì 17 dicembre 2008

IDEA PER UN REGALO DI NATALE

L'idea per un regalo di Natale da fare anche a sè stessi? Un buon casco. Di affidabile marca, con tutte le omologazioni d'occorrenza. Tralasciate il cosiddetto "scodellino", che non copre neppure le orecchie, che serve solo all'estetica e a chi te lo vende, e dunque, per chi lo indossa sulle strade, a nulla. Scegliete piuttosto un modello "integrale", oppure un jet di quelli buoni. Coprono la testa e il viso nelle sue parti difendibili. Scegliete un colore vivo, anche un casco decorato con i simboli che preferite (se non sono offensivi) o del vostro campione preferito. Questa protezione non costa poco, ma ciò che difende vale molto, molto di più. Quindi, è un acquisto che vale. Un vero acquisto d'amore. Se poi lo paragoniamo al prezzo di certe scarpe, di certi portatili, figuriamoci di certi telefonini, non c'è nemmeno storia. Utilizzando un linguaggio informatico, immaginate anche voi che si tratti di un firewall per il vostro hard disk personale. Quello dove risiedono i pensieri, i ricordi, le abitudini, gli scherzi, perfino gli amori. Non vi cambierà la vita, ma ve la può salvare.
(Un ringraziamento personale a Chicco Gallus)

domenica 30 novembre 2008

UNA SERA A COLONIA

Che cosa posso insegnarti io ? Pochissimo, al massimo raccontarti qualcosa che credo possa aiutarti. Tipo: c’è Keith Jarrett al piano, da solo, a Colonia, è una sera del 1975, è il 24 gennaio del 1975. Keith Jarrett sale sul palco, è reduce da due notti insonni, non si regge in piedi. Ha espressamente richiesto un pianoforte che non è arrivato. Quello in dotazione nel teatro gli è parso inadatto, insoddisfacente, l'ha provato, si è alzato e ha annunciato che il concerto è annullato. Poi, all'ultimo, cambia idea. I tecnici del suono decidono solo in extremis di mettere i microfoni per registrare la musica per gli archivi, per dovere di cronaca. Alle prime note qualcuno ride, tanto è fuori registro. Poi è silenzio. Segue un capolavoro dell'improvvisazione. Un amico di Jarrett spiegò così quel che accadde: "Probabilmente suonò in quel modo perché non aveva un buon pianoforte. Dato che non poteva innamorarsene, cercò un altro modo di tirarne fuori il meglio".
Non sai mai quando stai per dare il meglio di te, certo non sarà quando sei preparato per farlo. Né sai quando otterrai da qualcuno o qualcosa il meglio. Certo non sarà qualcuno o qualcosa che ti si presenta alla perfezione, senza un problema. Sarai solo sul palco e non avrai una seconda possibilità. E, il più delle volte, non ne tirerai fuori niente. Una volta, però, tutto potrà risultare indimenticabile.
(Un ringraziamento personale a Gabriele Romagnoli)

domenica 23 novembre 2008

MORIRE DI SCUOLA NEL 2008

Muoiono fisicamente coloro che si tolgono la vita per la vergogna di una bocciatura o per l'insostenibile fardello di un nomignolo che brucia come un marchio infamante. L’ultima vittima si chiamava Vito Scafidi: allievo della IV G del liceo Darwin di Rivoli (Torino), è rimasto ucciso dal crollo del soffitto della sua aula. Una "tragedia inspiegabile", come ha dichiarato il ministro Gelmini? Le cause ce le potranno spiegare soltanto i tecnici, ma di certo nel nostro Paese 60 edifici scolastici su 100 risultano fuori norma. E di certo, nella bufera delle constestazioni che ha investito la nuova riforma, si è parlato di ogni cosa fuorché dell'incolumità fisica degli studenti italiani. Alla luce di quanto è avvenuto ieri a Torino, tutto ha il sapore amaro di una tragica ironia: nei prossimi giorni in Italia si celebrerà la VI Giornata nazionale della Sicurezza nelle Scuole, quasi certamente con la presenza di autorità politiche e amministrative locali, le stesse che da anni assicurano interventi, naturalmente mai eseguiti. "Sicurezza" si fa per dire, perché in quasi tutta Italia aule e palestre sono fatiscenti, gli edifici spesso traballanti, sporchi e inadeguati. Il 75% di essi risulta “a rischio” perché non sono a norma, mentre gli incidenti a professori e studenti sono in costante crescita: nel 2007, secondo l’Inail, 12.912 al personale e 90.478 a danno degli alunni. I fondi per adeguare le strutture, ovviamente, sono sempre scarsi, e magari "ci sono altre priorità". Insomma, è un atto di coraggio mandare i figli a scuola. La gravità della situazione era stata denunciata per l’ennesima volta lo scorso settembre da Cittadinanzattiva, che presentò il VI Rapporto annuale su sicurezza, qualità e comfort degli edifici scolastici, dopo aver esaminato 132 scuole di ogni ordine e grado, dislocate in 12 regioni e frequentate da 41.269 studenti. Risultato? Due edifici scolastici su tre sono “appena sufficienti” o “pessimi”. L’istantanea scattata fa rabbrividire: 4 istituti su 10 sono senza palestra; le aule, alle quali spetta il titolo di “ambiente più sporco”, presentano crolli di intonaco in un caso su 5 e altri segni di degrado nel 29% dei casi; il 50% ha un impianto elettrico risalente agli anni Quaranta e nessuna norma antincendio; il 42% non ha porte antipanico; il 20% ha pavimenti sconnessi; il 24% ha finestre rotte; il 29% ha attrezzature sportive danneggiate, ma c’è pure un 9% che non ne possiede nemmeno una. Il campionario dei casi “al limite” è lunghissimo. Esistono cantine umide per fare ginnastica, aule riscaldate con stufe elettriche (alla bella faccia del risparmio energetico), termosifoni che cadono, aule poste sotto il livello stradale, infiltrazioni d’acqua, tubi e fili elettrici a vista, pavimenti e sanitari vecchi e rotti, ascensori non collaudati. Il 75% degli istituti scolastici in Italia non è sicuro, per questo serve una loro revisione immediata, per individuare quelle a rischio ed evitare altre tragedie. Impegnatevi, cari signori politici italiani, affinché i risparmi derivanti dal progetto di riforma della scuola e dal piano di razionalizzazione degli edifici scolastici siano reinvestiti e destinati esclusivamente alla messa in sicurezza dell'edilizia scolastica. Ripartiamo da lì, dalla sicurezza di ciò che già è presente. Nella giornata di oggi, i telegiornali parleranno più volte del tragico crollo: assisteremo alle solite accuse, alle solite statistiche, alla solita sfilata di opinionisti. Io non riesco, scusatemi, ad esprimere un onorevole parere. Penso soltanto alla vita spezzata di questo adolescente e della sua famiglia e mi chiedo che senso avrà continuare a discutere sulla cosiddetta riforma di una scuola che andrebbe ricostruita, non solo metaforicamente, dalle sua fondamenta e sulla quale una società civile dovrebbe fare i massimi investimenti. Sarà difficile, e spero lo rimanga anche per tutti coloro che ci governano, dimenticare Vito Scafidi, 17 anni, un ragazzo che come tanti suoi coetanei amava la vita, divenuto tristemente l'emblema di una scuola italiana che nel 2008, nelle condizioni vergognose in cui si trova, ha finito con l'ucciderlo.

lunedì 17 novembre 2008

RICORDO DI ARMANDO GERVASONI (1933-1968)


Armando Gervasoni
Quarant’anni fa, il 17 novembre 1968, Armando Gervasoni, giovane giornalista vicentino di talento, muore a soli 35 anni in un incidente stradale. Insieme al libro di Tina Merlin, il suo testo “I corvi di Erto e Casso” rimane un testo fondamentale per comprendere la tragedia del Vajont.
Negli anni ’50 collaboratore de “Il Mondo” di Pannunzio, agli inizi degli anni ’60, da professionista, entra nella redazione bellunese de “Il Gazzettino”. Ha l’occasione di conoscere Tina Merlin, la coraggiosa cronista de “L’Unità” che segue sin dall’inizio i lavori della costruzione della diga del Vajont da parte della Sade, e può conoscere ed approfondire molte questioni legate alla diga e alla vita degli abitanti della zona. Tutto ciò di cui viene a conoscenza viene riversato in un romanzo: tra il gennaio e il settembre del 1963, infatti, egli scrive un libro pieno d’angoscia cui darà il titolo de “I corvi di Erto e Casso”, testo quasi profetico in cui Gervasoni prefigura il disastro che sta per succedere. E’ una tragedia preannunciata, dovuta a precise e ben riconducibili responsabilità, che si scatenerà in seguito alla costruzione di una maledetta diga a fianco d’una montagna soggetta a frane e quindi completamente inaffidabile quale punto di ancoraggio della nuova opera.
Il libro del giornalista vicentino, prima del disastro, conosce varie tappe forzate che ne impediscono la pubblicazione. Nella funesta notte del 9 ottobre, quando giunge la notizia della strage del Vajont, Gervasoni non si trova più a Belluno: nei primi mesi del 1963 è stato spostato alla redazione di Rovigo de “Il Gazzettino”. L’ordine era partito dall’alto. Dal centro rodigino Gervasoni ritorna però nel Vajont, stavolta come inviato. Racconterà la disgrazia di quanto è costretto a rivedere dopo averlo purtroppo inutilmente preannunciato. Il suo libro verrà stampato nel 1967 per i tipi dell’editore Giordano di Milano, adattato stavolta alla realtà cui Gervasoni si era inizialmente ispirato con un taglio più letterario. Postumo, vedrà la luce nel 1969 anche il suo ultimo lavoro, dal titolo “Il Vajont e le responsabilità dei manager”, edito da Bramante, Milano.

La scomparsa di questo giovane uomo, padre di famiglia, scrupoloso e valente giornalista vicentino, lascerà un vuoto incolmabile.

domenica 9 novembre 2008

DIFFERENTI VISUALI




mercoledì 5 novembre 2008

L'AMERICA E LA FORZA DI CHI NON SMETTE DI SOGNARE

Il fenomeno Obama ha travalicato l’America e l’onda emotiva, dopo la sua elezione (quale 44.mo presidente degli USA) si sta allargando a tutto il mondo globalizzato, Cina ed Iran compresi. Se l’entusiamo giova, l’esaltazione però nuoce alla politica e c’è il rischio che speranze e attese vengano presto deluse e frustrate. Obama (47 anni) viene infatti spesso definito come un altro Kennedy (che ne aveva 44 anni al momento dell’elezione): il mito di JFK è ancora vivo, anche se più in Europa che in America, ma oggi sappiamo che il vero artefice della legislazione sui diritti civili, e di un welfare americano destinato ad essere smantellato dalle amministrazioni repubblicane nei 30 anni successivi, fu Lyndon Johnson, a suo tempo uno dei presidenti più impopolari. Obama ha dimostrato grande intelligenza e grande abilità nell’organizzare e condurre una campagna elettorale quasi senza errori mentre sia Hillary Clinton che John McCain, i suoi maggiori avversari, ne hanno fatti diversi. È circondato da uno stuolo di consiglieri di grande livello, economisti, diplomatici, sociologi, il meglio insomma che oggi possa offrire l’America. Ciò che consiglia cautela è piuttosto la situazione obiettiva che Obama erediterà, caratterizzata da una crisi di cui resta ancora da capire il percorso, di scegliere i mezzi per farvi fronte a cui il Paese arriva dopo anni difficili con risorse limitate da una politica demogogica di tagli fiscali indiscrimati, dai costi altissimi di una guerra ancora aperta con una moneta inflazionata che non potrà più occupare la posizione dominante che ha mantenuto per più di mezzo secolo. Ha mandato in soffitta, al termine dell’era di Bush, la visione unilaterale e muscolare dei rapporti internazionali, le teorie neo-con, della democrazia esportata sulla punta del fucile. Ha riscoperto lo statalismo keynesiano, dopo la lunga parentesi del liberismo sfrenato, della finanza allegra e selvaggia, incubatrice delle attuali sventure. Ma ha soprattutto rotto gli argini del conformismo e delle convenzioni, degli assetti costituiti del potere, testardamente maschile, rigorosamente bianco. Sul palcoscenico delle primarie e poi della maratona presidenziale hanno fatto il loro ingresso e lasciato il segno Hillary Clinton, a lungo considerata la prima potenziale presidentessa della superpotenza Usa. Poi Sarah Palin, con la sua carica comunque carismatica di paladina dei valori ipercristiani, del ventre conservatore del paese, di un diverso modo di essere donna e femminista.Ed infine lui, il fenomeno Obama, primo nero della storia Usa a conquistare la leadership di uno dei due grandi partiti statunitensi; a sconfiggere la formidabile macchina da guerra di Hillary nella primarie. Ed a puntare, lui, figlio ed erede di 300 anni di sofferenza ed umiliazione della gente nera, alla conquista della Casa Bianca. Un’impresa condotta con grande intelligenza, freddezza, lungimiranza e disciplina, pregio quest’ultimo tradizionalmente alieno alla macchina politico-elettorale del partito democratico. Una battaglia combattuta con un avversario tenace ed esperto come McCain. Anch’egli simbolo, nonostante l’età avanzata e la lunga militanza a Washington, dell’urgenza di cambiare strada dopo otto lunghi anni di regno busciano. “Change!”, invocavano a gran voce ieri decine di milioni di americani per ora in fila davanti ai seggi. E cambiamento, in ogni caso, hanno avuto. Perchè la grande forza dell'America sta nella sua irrefrenabile voglia di continuare a sognare.

giovedì 30 ottobre 2008

QUELL'INSPIEGABILE SENSO D'ITALIA - VOL. 2


sabato 18 ottobre 2008

PER OGNI SUCCESSO C'E' SEMPRE UN FALLIMENTO

Tra un paio di mesi Roger Tsien e Martin Chalfie saranno a Stoccolma per ricevere il Nobel per la Chimica e 450.000 dollari, come premio per aver messo a punto una rivoluzionaria tecnica per studiare le cellule. Ma lo scienziato che ha realizzato la ricerca iniziale, l'individuazione del gene di una medusa che produce una proteina fluorescente, senza la quale il lavoro di Tsien e Chalfie non sarebbe stato possibile, ha lasciato l'attività scientifica. Douglas Prasher, che nei primi anni '90 lavorava per l'istituto di ricerca Woods Hole Oceanographic Institution del Massachusetts, aveva condotto infatti una ricerca sulla medusa Aequorea victoria. "Sapevo che la proteina che studiavo avrebbe potuto essere utilizzata come marcatore genetico e che sarebbe stata molto utile, come in effetti si è rivelata". Lo scienziato smise però di lavorarci per ragioni personali e cercò un altro lavoro, abbandonando le meduse. Fu poi contattato separatamente da Chalfie e Tsien per il gene che aveva individuato. Ora lo scienziato che isolò quel gene fa l'autista per un rivenditore di automobili a Huntsville, Alabama, per 10 dollari l'ora. Dopo l'annuncio del Nobel per la Chimica, la settimana scorsa, diversi media sono andati a scovare Prasher a Huntsville. A tutti l'ex ricercatore di 57 anni ha risposto che non si sarebbe sentito a suo agio se fosse stato incluso tra i vincitori del Nobel. "Altri lo avrebbero meritato molto più di me" dice. "È normale che ci siano persone che lavorano con enormi sacrifici, dedicando la loro vita alla scienza, senza ricevere il Nobel".

mercoledì 15 ottobre 2008

QUELL'INSPIEGABILE SENSO D'ITALIA





domenica 5 ottobre 2008

QUANDO LA DEMOCRAZIA E' AZZOPPATA

L'utilità della libertà di espressione e di voto non si misura solo a partire dal suo "rendimento" concreto, dall'efficacia pratica dei risultati. Se servisse solo per affermare idee incontrastabili, non si spiegherebbe perché, per quanto faticosamente, tale principio regga ancora in Italia. La libertà di espressione si ridurrebbe infatti ad essere un semplice utensile per realizzare e smerciare dei "prodotti" pubblici e/o privati; un sistema e un metodo per decidere allo stesso modo di un'azienda qualsiasi. La libertà di espressione ha valore in sé: essa è un valore in sé. Le procedure mediante cui essa si realizza fungono da fonte di legittimazione perché garantiscono il riconoscimento al diritto di manifestare il proprio pensiero, e soprattutto il dissenso in modo civile. La libertà di manifestazione del pensiero, se espressa civilmente, è utile e necessaria proprio perché, se oggettiva ed obiettiva, permette il confronto critico, incanala il dissenso sociale, garantisce la mediazione critica e sostituisce la partecipazione allo scontro. Essa, peraltro, offre un sostegno importante e insostituibile alla vera democrazia rappresentativa. Devia le forme di dissenso dentro alle logiche e alle regole del confronto civile. Isola ed estromette le frange più estreme, le pulsioni incontrollabili e le tentazioni più violente. Se essa non può essere strumento per “gestire” il malessere e le tensioni sociali, chi vi partecipa e accetta quella altrui riconosce implicitamente il gioco della democrazia. Perché si trasferisce il confronto dalla piazza a metodi e mezzi rappresentativi più civili, e quindi si preferisce attivamente la logica della libera manifestazione di pensiero a quella dello scontro. Senza ad esempio la libertà di stampa e di espressione democratica invece, la società si ritrova azzoppata e costretta al silenzio. Se si mette un bavaglio a questi diritti si sancisce, semplicemente, che la democrazia è una “cosa” inutile. Che la partecipazione non serve, che l'ascolto e la comunicazione sono soltanto dei vizi. Che magari è perfino meglio decidere ignorando il dissenso, dichiarando cioè preventivamente "illegittima" la minima possibilità di farlo emergere. Ma la libertà di libera espressione, che è una forma diretta della democrazia, ha una sua funzione “terapeutica”, prima che concreta e strumentale: serve a curare, prevenendola, dall’estremizzazione dei rapporti sociali e politici, a evitare che la loro possibile frustrazione degeneri, intaccando il corpo stesso del dialogo civile. Quando la libertà di espressione è resa sterile, inutile, insignificante, quando è svuotata del suo reale valore, allo stesso modo della democrazia, allora è lecito avere paura non solo del proprio futuro.
(Un ringraziamento personale a Ilvo Diamanti)

venerdì 3 ottobre 2008

STRAGI SOTTO TRACCIA

Nelle ultime 3 settimane 8 bambini sono stati uccisi in famiglia. Come dire quasi 1.000 vittime l’anno tra omicidi e suicidi, il doppio di quante ne fanno insieme mafia e terrorismo. Il vertice dell’aumento dei delitti l’abbiamo toccato nel corso degli ultimi 2 anni. Mai si erano contate così tante vittime di omicidi e suicidi legati a vicende familiari. Il fenomeno può essere spiegato con la solitudine delle coppie in grave conflitto tra loro e anche con l’aumento delle separazioni chieste dalle donne: in 6 casi su 10 sono infatti le donne a decidere di troncare il rapporto e a rivolgersi all’avvocato, e questa condizione spesso l’uomo non riesce a sopportarla. Le ragioni di questo rifiuto sono spesso facilmente comprensibili: in molti casi, si tratta di persone che hanno subìto dei maltrattamenti in famiglia.In che modo si può comunque prevenire la violenza sotto il tetto domestico? Per prima cosa, non sottovalutando le avvisaglie: la gran parte di questi fatti di sangue deriva da separazioni e divorzi gestiti non sempre al meglio e le cui vicende spesso vengono sottovalutate dagli addetti ai lavori. Ogni giorno vengono emessi dagli ospedali italiani centinaia di referti medici che attestano lesioni subite da donne e bambini tra le mura familiari.
Si tratta di una barbarie che non possiamo più trascurare. Ma come prevenire queste tragedie domestiche? Tanto per cominciare, secondo gli operatori sociali e legali più esperti, bisognerebbe provvedere al potenziamento dei servizi sociali di assistenza, e forse, anche ad istituire uno specifico corpo di polizia specializzato nei reati intrafamiliari, creando così una corsia preferenziale per le denunce di maltrattamenti in famiglia. Non si possono seguire i tempi delle altre indagini, se non c’è un intervento immediato, in questi casi si corre il rischio di arrivare troppo tardi: statisticamente il 50% delle stragi è solitamente una tragedia annunciata perchè preceduta da denunce e referti medici.
Quale ultimo aspetto, ma non certo per importanza, ci vorrebbe inoltre maggior celerità nelle cause di separazione. In questi casi e nei divorzi altamente conflittuali, quando ci sono dei sospetti di maltrattamento, i mariti dovrebbero essere subito allontanati da casa. E se una delle parti ha depositato copie di referti medici o di denunce penali l’udienza dovrebbe essere fissata dopo qualche giorno, al massimo entro 7 giorni, sostengono sempre gli operatori sociali e legali più esperti. Non è infatti possibile, in questi casi, seguire la trafila tradizionale. In una separazione giudiziale su 3 vengono allegati agli atti copie di referti medici e denunce. Insomma, basta con le troppe parole, bisogna finalmente provvedere: la violenza tra le mura domestiche è un dramma che non può essere più sottovalutato dalle forze politiche e dalla magistratura.

domenica 28 settembre 2008

PAPA GIOVANNI PAOLO I: LA DOLCEZZA CHE SCOSSE IL MONDO

(Da “Il Giornale di Vicenza”, martedì 23 settembre 2008, pag. 7)

Tra le ragioni della grande attenzione riservata verso la figura di Albino Luciani c'è l'esclusivo, e a suo modo rivoluzionario, sistema di comunicazione e trasmissione dei messaggi evangelici. La sua voce flebile, quel fraseggiare confidenziale e tipicamente popolano, se a prima vista potevano apparire propri d'una figura fragile e trasparente, appartenevano invece a un uomo di fede dalla personalità articolata e tenace, impregnata di profonda cultura, animata da una grande spiritualità e permeata di saggezza. La modestia, non solo esteriore, rappresenta una cifra importante del suo carattere: essa pervase la sua intera vita, da prete come da pontefice. Conosciuta l'infanzia tribolata che aveva vissuto, molti si sono chiesti da dove Albino Luciani traesse la forza per il suo schietto e bonario carisma, decisamente allergico al crudo cerimoniale, alieno dalla raffinata arte della diplomazia, libero dai dettami dell'ufficialità più paralizzante, in sintesi quell'austerità che alla fine allontana la gente più umile. Ancor oggi tante persone si chiedono quale intrinseca energia riuscisse ad animare incessantemente le sue parole, a suscitare la stessa autentica emozione che scosse l'animo dei fedeli di tutto il mondo tra l'agosto e il settembre di 30 anni fa. Albino Luciani, esperto catechista, era ben conscio che il messaggio cristiano, se chiaro e ben veicolato, può facilmente ed efficacemente raggiungere l'animo dell'ascoltatore. Egli stesso, quand'era ancora vicario di Belluno, in un capitolo della sua "Catechetica in briciole" aveva scritto: «La chiarezza: poche idee, ma colorite e incisive; meglio poco e bene che tanto e confuso; parole facili, che i fanciulli già conoscono e capiscono, concrete e, se possibile, accompagnate da immagini». Grazie a una prodigiosa memoria fotografica, Luciani risultava un'inesauribile miniera di riflessioni, aneddoti, riferimenti e meditazioni contemplative, ed era chiamato per molti incontri e convegni anche fuori della diocesi di competenza. Sorprendeva sempre gli ascoltatori per l'esposizione tanto semplice quanto profonda, con una elevata capacità di sintetizzare efficacemente gli interventi citando a memoria lunghi brani scritturistici. La sua era una comunicativa mai invadente che disponeva ad un simpatico ed immediato approccio. Stabiliva facilmente rapporti con la gente comune: gli era usuale ricorrere all'aneddoto, instaurando in tal modo più facilmente un dialogo. A Venezia, inizialmente, i suoi collaboratori vissero con disagio i viaggi in vaporetto. Luciani, infatti, cominciava per primo a parlare con chiunque. Interpellava preferibilmente i bambini e le mamme. Alla fine, quando i suoi accompagnatori sentivano di precisare «È il patriarca», queste persone si stupivano felici; ancor più, secondo le testimonianze, egli agiva così durante le visite pastorali, o quando visitava le famiglie, gli anziani e i malati. Luciani sentiva molto l'esigenza sia di curare la comunicativa sul piano pastorale sia di mantenere una costante formazione della propria spiritualità, indicando ciò prima di tutto a sé stesso. Amava molto la letteratura. Era abbonato a numerose riviste internazionali, soprattutto francesi (leggeva in questa lingua con estrema disinvoltura), di spiritualità, patristica, teologia. A Belluno, dove pensava che sarebbe trascorsa tutta la sua vita, aveva donato i suoi libri al Seminario. Divenuto vescovo di Vittorio Veneto, cominciò a ricostruire una biblioteca secondo il suo gusto. A Venezia continuò ad acquistare libri della letteratura conosciuta in giovinezza, che citava nelle omelie o durante i dialoghi con i ragazzi della catechesi. Di questa si trova traccia nei suoi scritti sul "Gazzettino" e sul "Messaggero di S. Antonio": Dickens, Tolstoj, i grandi classici della letteratura mondiale.Il suo stile narrativo preferito appare come un flusso ininterrotto di pensieri e riflessioni intarsiati da molti ricordi personali, un'illustrazione robustamente sostenuta dall'inserimento di episodi esplicativi. Luciani sapeva conferire vigore alle parole: ogni concetto veniva efficacemente esposto con l'accortezza di riferirsi in prima persona all'ascoltatore per lo più dal livello culturale modesto. L'io narrante accompagnava naturalmente i suoi gesti: solo così, attraverso il discorrere sempre dolce e familiare, giungeva come effetto complementare il sorriso con cui egli si conquistò un posto perenne nella memoria popolare. L'immagine di "Papa del sorriso" passata alla storia non deve dunque essere intesa come segno di timidezza, imbarazzo, inadeguatezza, o quale indice esteriore di ingenuità: il sorriso, che gli veniva spontaneo, era "semplicemente" un altro modo di manifestarsi, mostrarsi e restare in mezzo agli altri. Luciani raggiungeva il cuore perchè sapeva emozionare, accarezzare i sentimenti più dolci, le speranze più forti dell'animo umano, il senso di pace, di carità, i pudichi ardori e amori, facendo riscoprire all'ascoltatore il suo mondo interiore con lo stesso stupore dei fanciulli. La semplicità dell'essere, del pensare, dell'agire, del mostrarsi costituisce una concreta testimonianza di quanto la reale semplicità evangelica sia essenza e trasparenza. Quella di Luciani era la vera sapienza del cuore rivolto a Dio e al prossimo. Il suo pontificato, pur brevissimo, fu sufficiente per proporre al mondo il carisma cristiano della semplicità che nasconde una grande forza interiore.

mercoledì 24 settembre 2008

MORIRE PER COSA ?

Ieri sera altre due vite umane sono state sradicate lungo una strada. Una donna e un uomo, Cecilia e Alessandro, due miei amici di gioventù, falciati da una macchina impazzita, sono rimasti a terra. Un ragazzo di 18 anni, il loro investitore, su quell'asfalto viscido non ha lasciato la vita ma la serenità di tutta la sua esistenza. Quando un pezzo della tua giovinezza e del tuo futuro muoiono in questo modo lungo uno strafottuto nastro grigio, quando viene stracciata così anche la storia di una coppia di persone che hanno condiviso, senza cedere, senza arrendersi, senza comunque mai piegarsi, perchè è stato l'Amore a tenerle insieme, innumerevoli momenti di difficoltà e amarezza, nulla di ragionevole può davvero bastare per giustificare a te stesso che tutto questo non ha un senso.
Credo in Dio, in un valore eterno di ciò che siamo e che siamo stati, e per questo un giorno, finalmente incontrandolo, non mi importa se dovrò restare prostrato davanti ad una Luce, se vestiremo entrambi in jeans o in abito da sera, se dovrò rimanere in piedi o se potrò sedermi vicino a Lui sulla panchina di un parco, aprendogli ancora una volta il cuore, Gliene chiederò la Ragione.

domenica 21 settembre 2008

DEDICA A TE CHE MI STAI LEGGENDO

Da quando ho aperto il mio blog personale, a distanza di 11 anni dal mio primo utilizzo di Internet, ho verificato con piacere che la Rete, nella sua pur sempre limitata estensione mondiale e con tutti i comprensibili difetti qualitativi ci cui spesso soffre, permette anche di raggiungere persone lontane con le quali fino a qualche momento prima mai avremmo potuto pensare di condividere qualcosa, e magari di conoscere direttamente le loro idee, il loro modo di sentire le stesse cose.
Ricevo puntualmente accessi da tutta Italia e dall'Estero, e desidero ringraziare di cuore ognuno di voi, anche tu che mi stai leggendo in questo momento, per i commenti e i contributi che ricevo. Adesso sono pienamente convinto che ogni minuto dedicato a custodire ed aggiornare questo blog, come meglio posso e nei miei ritagli di tempo, non è speso invano.
E' domenica e dedico a tutti questa poesia di Nazim Hikhmet. E' un inno alla vita, scritto nel 1948. Di questo grande autore mi colpiscono non soltanto l'estro, l'istinto e l'intuizione artistica, ma il fatto che riesca (non c'è infatti tempo passato per l'animo e il cuore) a scrivere versi meravigliosi in momenti poco felici per il suo animo.

Alla vita (1948)

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro,
ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola.

lunedì 8 settembre 2008

QUANDO NON C’E’ PIU’ L’UOMO

7 Settembre 2008. Ci sono inferni spenti le cui braci continuano a bruciare nel nostro animo. In una domenica di pallido sole sono entrato nel campo di Auschwitz e ho visitato quello gemello di Birkenau. Sono arrivato ad un muro davanti a cui vennero fucilate almeno 70.000 persone, però col fondo rinforzato, altrimenti fuori si sarebbe potuto sentire il rumore degli spari; ho visto i forni crematori, le stanze affumicate e le impronte di chi cercava di grattare il muro per sciogliere il ghiaccio dai sottili passaggi per l’aria consentita a 50 esseri umani; ho visto la cella di Massimiliano Maria Kolbe, canonizzato il 10 ottobre 1981 da Giovanni Paolo II; ho sostato di fronte a cubicoli in cui dopo 10-12 ore di lavori forzati venivamo rinchiuse insieme, senza potersi sedere e praticamente una addosso all’altra, 4-5 persone perché così morissero più rapidamente; mi hanno mostrato la stanza in cui vennero trovate una cinquantina di donne morte quando entrarono i russi il 26 gennaio 1945; ho visto la stanza delle riunioni della Gestapo; le colombaie e i cassoni di legno in cui dovevano dormire ammassati i prigionieri; ho visto montagne di scarpe, occhiali, protesi; osservando la vetrina dietro cui c’erano milioni di capelli mi hanno spiegato che era stato calcolato quanti ne porti mediamente un uomo, per determinare meglio i cicli di raccolta per lo sfruttamento industriale; che in una settimana, al massimo regime, gli aguzzini ricavavano 42 kg di oro dai denti delle vittime: nelle condizioni fisiche in cui versavano ed erano costretti a resistere i prigionieri, i nazisti preventivavano a ciascuno più o meno 3 mesi di vita; mi hanno spiegato che con 8 scatole di gas si uccidevano 2.000 persone e che si cercava di risparmiare anche sulla quantità utilizzata delle camere; ho visto le copie degli appunti e dei rapporti meticolosi dattiloscritti dagli ufficiali che pianificavano al meglio una perfetta macchina di umiliazione, sterminio, annientamento.
Di fianco a me sono scorse le immagini di migliaia di persone con volti che incontriamo anche oggi lungo una qualsiasi strada: c’erano perfino bei visi da attrici ed attori.
Sono salito sulla torre centrale da cui qualcuno controllava con fierezza un regno di lucida follìa; ho visto un militare dal fisico sportivo ed aitante ridere mentre un vecchio, barcollante, si stava trascinando verso la morte perché non poteva lavorare e dunque non serviva più a nessuno; ho visto un'immagine incredibilmente scattata di nascosto, col piccolo apparecchio sotto la veste, di ciò che vedeva una donna che stava per essere gasata e i messaggi scritti e nascosti sotto terra perché qualcuno un giorno sapesse; sono entrato nelle baracche-latrine dove la minima riservatezza non esisteva più, dove non c'era più differenza con le bestie, dove i nazisti pensavano di sfruttare persino i bio-gas prodotti dai prigionieri.
Ho attraversato questi allucinanti non-luoghi, ho ascoltato ancora dell'altro, e non ho nemmeno la forza di descrivere che cosa ho provato, perché non esistono parole adatte, ma solo il silenzio, per tentare di esprimere il peso d’angoscia che mi è sceso dentro, ma so che non potrò dimenticarmi, perché non lo voglio, il terrore negli occhi di un bambino, uno per tutti, paffutello ma bellissimo, mentre gli scattavano le foto identificative perché avevano calcolato che, dopo due settimane, a causa degli stenti, i suoi lineamenti, come per quelli di tutti gli altri condannati a morire, sarebbero stati irriconoscibili, e ho scelto di ricordarmi per sempre di lui. Non ho fatto in tempo a leggere il tuo nome, piccolo, ma non temere, tu non sparirai, come tutti gli altri cuccioli impauriti che si tenevano per mano mentre andavano alle docce.
I carcerieri erano gli stessi che davanti a Padre Kolbe disposto a sacrificarsi al posto di un padre di famiglia non sapevano come reagire: impietosi davanti a gente che voleva vivere, impreparati davanti a persone che sceglievano di morire.
Mi sono tornate in mente le ultime parole di un partigiano italiano davanti al plotone d’esecuzione: “Voi mi uccidete, ma siete voi ad avere paura”. Perché i disperati erano loro, i carcerieri.

lunedì 1 settembre 2008

UNO DEI MILLE DI GIUSEPPE GARIBALDI

Per studiare il rapporto tra Giuseppe Garibaldi e Vicenza, e per capire meglio anche la figura dell’Eroe dei Due Mondi, bisogna considerare la vita di un uomo di nome Domenico Cariolato. Tra gli eroi del Risorgimento italiano e vicentino va infatti ricordato questo patriota nato in una delle tante generose città da dove partirono i Mille della famosa Spedizione (furono ufficialmente 34 i garibaldini vicentini che vi parteciparono).
La storia di Domenico Cariolato (1835-1910), anche senza particolari effetti speciali, rappresenta la base per un ottimo copione da film fin dalle prime scene. Nato a Vicenza, nelle fatidiche giornate del giugno 1848, appena tredicenne, Cariolato si distinse già nella difesa della città berica dalle truppe austriache del Maresciallo Radetzky.
Grazie alle gesta compiute nella difesa di Roma dall’assalto dei Francesi, l’anno seguente egli si vide riconosciuta una daga d’onore.
Dopo aver militato nel battaglione vicentino formato da volontari che seguirono con entusiasmo il Generale, Cariolato vestì la camicia rossa dei garibaldini nella leggendaria spedizione dei Mille (si distinse con particolar merito a Calatafimi) e da quel momento fu tra coloro che seguirono sempre da vicino le gesta di Garibaldi, divenendone nel tempo uomo di fiducia.
Combattente dai riconosciuti valore ed esperienza (fu peraltro tra i Cacciatori delle Alpi) Domenico Cariolato fu praticamente presente in tutte le più importanti battaglie del Risorgimento italiano, combattendo con onore anche a Bezzecca nel 1866.
Dal carteggio Cariolato-Garibaldi giunto fino a noi si evince che il colonnello vicentino intrattenne con il Generale nizzardo un solido rapporto personale anche negli anni della decadenza e della vecchiaia dell’uomo che fu il suo punto di riferimento di una intera carriera militare.
Queste sono soltanto alcune notizie della vita di Domenico Cariolato, patriota per lungo tempo dimenticato ed un uomo la cui vita rimane ancor oggi da riscoprire.

Saverio Mirijello (e-mail:
savemir@tin.it)

AMORE IMPOSSIBILE

E’ stato il vento dell’estate, non io, a scrivere su questo foglio. Il vento, così forte e veloce, che sa cambiare anche le prospettive palladiane, che ci spettina i pensieri, che riporta indietro i ricordi e ci spinge in avanti verso sogni di leggerezza infinita, impossibile. E’ stato il vento di questa folle e magnifica stagione a guidare la mia mano, facendo fare capriole e mulinelli alle mie poche e fragili certezze. Non ero io a scrivere di te su questa pagina candida, di tutto ciò che vorrei dirti, delle cose che posso soltanto ricordare. E’ stato il vento, insolente e imperioso, vento sul viso, tra gli alberi, vento tra i capelli, vento che ci fa chiudere gli occhi, che ci spezza gli ombrelli, che porta l'odore del mare fino a qui. Non è mia la colpa o il merito, non è me che devi biasimare o ringraziare per le parole scritte oggi su questa pagina bianca, ma il vento dell’estate che è entrato nella mia casa senza chiedere alcun permesso, sbattendo la porta, facendo volare ogni cosa, fuori e dentro.

martedì 26 agosto 2008

Blog su PAPA LUCIANI

Gentile ospite,

ho il piacere di invitarti a visitare il blog che ho creato su Giovanni Paolo I in occasione della ricorrenza dei trent’anni (1978 - 2008) dal suo pontificato.
L’indirizzo a cui puoi collegarti è il seguente:

http://papaluciani.blogspot.com/

giovedì 21 agosto 2008

UN ALTRO MODO DI LEGGERE IL MEDAGLIERE OLIMPICO


Qualche volta, sulla differenza tra il podio e la medaglia di “legno” (il 4° posto) più che la prestazione atletica incidono la sorte o un punteggio eccessivamente benevolo da parte di un giudice. Oltre a ciò, il medagliere non evidenzia mai la qualità di risultati che, se non valgono un podio, possono avere comunque un valore significativo. Per allargare la valutazione sui risultati non contemplati nel medagliere abbiamo conteggiato tutti i piazzamenti tra i primi 8 (considerandoli finalisti), attribuendo dei punteggi a scalare: 8-7-6-5-4-3-2-1. Con tale criterio finiscono col primeggiare gli USA, superiori alla Cina per numero di finalisti in tutte le prime 8 posizioni, escluse ovviamente le vittorie. Terza è la Russia (21 quarti posti, come USA e Cina), quarta l'Australia, a seguire Gran Bretagna, Germania e Francia, con l'Italia ottava, davanti al Giappone e all'Ucraina. La classifica a punti valorizza le prestazioni italiane: 74 finalisti, di cui ben 13 finiti al 4° posto e altrettanti al 5°. Gli atleti azzurri sarebbero così quarti davanti a giapponesi e sudcoreani ma finirebbero alle spalle dei francesi, che dalla loro farebbero “pesare” la presenza nelle fasi finali di ben 104 atleti. E’ il segno di un movimento in piena salute perchè riesce ad esprimere valori di livello elevato distribuiti su un più ampio ventaglio di discipline. USA, Cina e Corea del Sud si distinguono perché hanno ottenuto più podi (rispettivamente 110, 100 e 31) che piazzamenti dal 4° all’8° posto (88, 66 e 20): è l'indice della capacità di individuare le gare in cui eccellere. Altro indizio per valutare la forza teorica di un movimento è il rapporto fra le medaglie conquistate e il numero degli abitanti: in questo svetta nettamente la Giamaica, che con una popolazione di 2,8 milioni di persone (Fonte: CIA) ha raccolto ben 11 medaglie (e 2 quarti posti, uno nel lungo), tutte nelle gare veloci di atletica. Seconda l'Australia, a seguire: Nuova Zelanda, Norvegia, Cuba, Armenia, Bielorussia, Georgia, Danimarca e Slovacchia. Quanto all’influenza delle giurie, ridimensionando i Giochi, escludendo cioè le discipline in cui queste sono decisive (ovvero: dressage, ginnastica, judo, lotta, nuoto sincronizzato, pugilato, scherma, taekwondo e tuffi), la Cina perderebbe il 50% del suo bottino (26 ori in meno sui 51 totali) e verrebbe scavalcata dagli USA, scesi a 32 ori (meno 4). La Gran Bretagna (18) e l’Australia (13) supererebbero la Russia (10). L’Italia scenderebbe invece a 3 ori (più 8 argenti e 4 bronzi) perdendone 2 dalla scherma, uno da pugilato, judo e lotta, e terminerebbe alle spalle di Ucraina, Olanda, Giamaica, Spagna e Kenya.
Come si vede, anche le classifiche possono finire come le opinioni al bar Sport: alla fine tutti ne abbiamo una valida.

martedì 12 agosto 2008

DAL VENETO AL MONDO: PAPA LUCIANI

(Da “Il Giornale di Vicenza”, martedì 12 agosto 2008, pag. 6)

IN UN LIBRO I VERI DISCORSI DI UN PONTEFICE A CUI PIACEVA IMPROVVISARE

di Gianmaria Pitton

Saverio Mirijello ebbe un moto di sorpresa quando, nell’ottobre del 2006, vide su Raiuno la fortunata fiction su papa Giovanni Paolo I, intitolata “Papa Luciani, il sorriso di Dio”, interpretata da Neri Marcorè. Sorpresa perché nei titoli di coda, nella bibliografia dei testi utilizzati come fonte per la sceneggiatura, c’era che un libro dello stesso Mirijello: “Con il cuore verso Dio. Intuizioni profetiche di Giovanni Paolo I”, pubblicato da Neri Pozza nel 1995 e distribuito in Italia da Longanesi. Libro fortunato, spiega Mirijello, tanto da essere praticamente esaurito, nonché apprezzato anche in ambienti autorevoli della Chiesa. Ma un libro stranamente “dimenticato”, anche se offre una documentazione particolarmente importante per conoscere da vicino papa Luciani. Saverio Mirijello infatti, in un anno e mezzo di lavoro, ha raccolto tutti i discorsi pronunciati da Giovanni Paolo I nel corso dei trentatré giorni del suo pontificato. Ma non compare semplicemente la versione ufficiale dei discorsi, bensì il testo effettivamente pronunciato dal papa il quale, spiega il curatore, «usava spesso modificare e integrare il testo preparato per la lettura parlando a braccio ai convenuti». Mirijello ha quindi rintracciato e trascritto le registrazioni, fornendo così la possibilità di capire come e dove il papa andasse oltre l’ufficialità del testo predisposto. Nel libro ci sono anche il messaggio di papa Luciani alla diocesi di Miami e il discorso preparato per l’udienza ai procuratori della Compagnia di Gesù, resi pubblici dopo la morte del pontefice, e un gruppetto di telegrammi e lettere. Suggestivo, fra i tanti testi presenti, il saluto alla folla in piazza S. Pietro, domenica 27 agosto: “Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere. Appena è cominciato il pericolo per me, i due colleghi che mi erano vicini m’hanno sussurrato parole di coraggio”. Poi la spiegazione del nome: Giovanni da Giovanni XXIII e Paolo da Paolo VI, i due pontefici suoi predecessori.

sabato 9 agosto 2008

IN ITALIA NON CI SI PUO' ANNOIARE MAI


venerdì 8 agosto 2008

8 AGOSTO: RICORDANDO MARCINELLE


Sono le 8 e dieci del mattino dell'8 agosto 1956. L‘inferno si sta scatenando sottoterra, a 975 metri di profondità: una colonna di fumo nero si leva dalla miniera di carbone di Marcinelle, a Charleroi, in Belgio. Dei minatori scesi nel pozzo per il primo turno 262 moriranno atrocemente: di questi, 136 sono italiani. Marcinelle, da anonimo nome di località, diverrà un peso irremovibile nella memoria delle tragedie italiane.
LA TRAGEDIA. Gli uomini si erano appena calati, l'estrazione era cominciata quando sulla piattaforma del piano 975, per un malinteso come può sempre capitare, la gabbia si avvia prima del tempo mentre un vagone non bene inserito oltrepassa uno degli scomparti filando via verso la superficie, guadagnando velocità e danneggiando due cavi elettrici ad alta tensione. E’ un errore che però costerà molto caro. Un bagliore, poi il finimondo: le fiamme avvolgono rapidamente travi e strutture in legno. Non ci sarà scampo per molti uomini là sotto. Solo 7 operai riusciranno a risalire in superficie, accompagnati dalle prime volute di fumo nero, annunciando la tragedia che si sta consumando.
"SONO TUTTI MORTI". I soccorritori, intuito immediatamente cosa sta tragicamente succedendo, tentano l'impossibile e sfidano la temperatura infernale causata dall'incendio. Il giorno dopo i lavoratori sono ancora prigionieri: l'incendio non ha ancora coinvolto chi lavora ai livelli più bassi della miniera e per giorni si spera di poterli trovare ancora in vita. Ma all'alba del 23 agosto i soccorritori riemergono in superficie e le poche parole pronunciate da uno di loro pesano come un macigno: "Tutti morti". Li hanno trovati a 1.035 metri di profondità, avvinghiati gli uni agli altri in un'ultima disperata ricerca di aiuto e di solidarietà.
RABBIA E IMPOTENZA. Quel giorno tante povere famiglie chiamano invano nomi italiani. Dopo le grida, i pianti, le maledizioni, le donne non hanno più voce e lacrime per piangere i loro uomini. Solo la pietà umana e l'intuito dell'amore permetteranno, in alcuni casi, di riconoscere i corpi consunti dalle fiamme. Sarà bandiera a lutto per l'Italia, per i 406 orfani che malediranno per tutta la loro vita Martinelle, per il Paese dei poveri, degli emigranti, "merce di scambio" tra i governi italiano e belga che nel 1946 firmarono l'accordo "minatori-carbone": l'Italia forniva manodopera (47mila uomini nel '56) in cambio di carbone.
UNA VITA IN CAMBIO DI TANTE SPERANZE. Partiti da casa con poche cose, i minatori, lavoratori delle tenebre, sono inchiodati sotto un cielo perennemente grigio di bassi fumi, un paesaggio da "Cittadella" di Archibald Joseph Cronin, di pavé nero e sconnesso. E’ un lavoro massacrante che abbrutisce e sfama a stento. Ci sono il grisou in perenne agguato, i mucchi di scorie come severe sentinelle, le umide baracche divenute case tappezzate da tante cartoline illustrate di paesi col campanile in mezzo e la campagna attorno, un bicchiere di vino dozzinale ed una voglia disperata del sole di casa. In Belgio si muore di gas venefico, di fuoco, della mancanza di sicurezza nei pozzi, ma si perde la vita anche più lentamente, senza accorgersene, per le polveri di carbone che entrano nei polmoni, per l’alcool che ti brucia, per la fatica, la nebbia, la muffa che ti entrano dentro, per la nostalgia che ti corrode l’animo. Sono vite vendute sempre per troppi pochi soldi, e per un maledettissimo sacco di carbone.

martedì 5 agosto 2008

UN SAGGIO DI SAVERIO MIRIJELLO: CARIOLATO, LE GESTA DI UN FEDELISSIMO DI GARIBALDI

(Da Il Giornale di Vicenza”, martedì 5 agosto 2008, "Cultura", pag. 43)

di Luca Valente

In prima linea nelle battaglie cruciali del Risorgimento, protagonista nella spedizione dei Mille, legato da sincera e duratura amicizia a Giuseppe Garibaldi. Domenico Cariolato (Vicenza, 7 luglio 1835 - Roma, 29 gennaio 1910) entra di diritto nella storia di quel periodo decisivo per la formazione dello stato nazionale. A ripercorrerne le gesta gloriose è Saverio Mirijello, autore di uno studio articolato che è stato recentemente pubblicato in sunto su un numero speciale della rivista Rassegna storica del Risorgimento, edito dall’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano di Roma in occasione del bicentenario della nascita dell’Eroe dei Due Mondi.

Quello di Cariolato nelle Guerre d’Indipendenza fu un esordio da predestinato. Il 10 giugno 1848, non ancora tredicenne, si distinse nella difesa di Vicenza assediata dagli austriaci salvando una donna e i suoi due bambini dall’esplosione di una bomba sulla quale si era gettato asportandone la miccia. Per il suo coraggio fu decorato con una medaglia di bronzo al valor militare da parte del Senato romano. Ma era solo l’inizio: l’anno successivo si arruolò nel battaglione vicentino della legione di Garibaldi, poi prese parte all’insurrezione di Genova, quindi combatté nella difesa della Repubblica Romana. In tale occasione il giovane garibaldino, preso prigioniero dai francesi, riuscì a fuggire, non prima di aver tenuto testa in un interrogatorio al generale Oudinot.Episodi ampiamente illustrati da Mirijello nella sua ricerca e riportati anche negli estratti pubblicati sulla rivista, dove trova ampio spazio soprattutto il rapporto di Cariolato con Garibaldi. Nel 1860, infatti, prese parte alla spedizione dei Mille (assieme ad altri 33 vicentini) e combatté nelle battaglie di Calatafimi, Milazzo e sul Volturno contro l’esercito borbonico. Si distinse in particolare nella prima, tanto che il Comune trapanese, successivamente, gli conferì la cittadinanza onoraria. Più volte promosso e decorato, nella battaglia di Bezzecca (1866) fu assegnato al quartier generale del condottiero nizzardo. L’anno successivo era ancora al fianco di Garibaldi, col grado di colonnello, nella sfortunata spedizione fermata a Mentana dalle truppe franco-pontificie.Al di là dei numerosi fatti d’arme che videro protagonista Cariolato, lo studio di Mirijello - che è alla ricerca di un editore, magari vicentino, disponibile a divulgarlo - presenta anche gli aspetti non eminentemente bellici del rapporto tra il generale in camicia rossa e il patriota vicentino, come la visita di Garibaldi a Vicenza del marzo 1867, durante la quale pronunciò un discorso dalla loggia della Basilica e la fitta corrispondenza tra i due, conservata al Museo del Risorgimento di Villa Guiccioli. Non mancano cenni all’esperienza civile e politica di Cariolato negli ultimi lustri dell’Ottocento, nonché al suo impegno come tutore dell’asilo di Bertesina, giardino d’infanzia creato con la moglie Anna Maria Piccoli.

giovedì 31 luglio 2008

UNA CITTA' CHE CONTA


mercoledì 30 luglio 2008

MARIO PER SEMPRE TRA GLI UROGALLI

(Da "Realtà Vicentina", anno XIX, n. 10, luglio 2008)

I miei brevi racconti non parlano di primavere silenziose, di alberi rinsecchiti… ma di cose che ancora si possono godere purché si abbia desiderio di vita, volontà di camminare e pazienza di osservare.” (Mario Rigoni Stern, “Uomini, boschi e api”)

Austero, silenzioso, composto come sempre, il Sergente Mario se n’è andato in punta di piedi. Ci ha insegnato tante cose, descrivendoci con le parole più semplici le leggi immutabili che regolano l’umanità e i sentimenti delle persone. Semplici e ignari protagonisti di vite da raccontare per la loro splendida specificità: boscaioli, minatori, allevatori di bestie, giardinieri, ferrovieri, venditori di stampe, recuperanti, migranti. Con l’arte della sua semplicità ci ha dimostrato che si può conoscere la vita osservando le stagioni, gli uomini e gli animali che abitano il nostro stesso tempo da una contrada al confine della porzione che ognuno di noi riceve in affido, senza la necessità di compiere infiniti, e talvolta inutilmente sfiancanti, viaggi continentali. Non è davvero poco, e non potremo mai finire di ringraziarlo soltanto per questa lezione.
Mario Rigoni Stern è un arguto scrittore che ha conosciuto sulla sua pelle il dramma della più pagliaccesca follìa umana, la guerra, ed un uomo che ha saputo fermarsi ad ascoltare la sottile ed inestimabile lirica della vita, conservandone il segreto nello scrigno del proprio silenzio anche per consegnarlo intatto un giorno a coloro, come molti dei suoi compagni nella tragica campagna di Russia, che non ebbero il tempo di scoprirlo fino in fondo.
Infaticabile testimone oculare di ciò che è l’orrore e di ciò che è il riscatto di un’esistenza altrimenti perduta, nel suo animo era rimasto conficcato il chiodo ghiacciato di un inverno maledetto, l’immagine d’interminabili colonne di uomini diretti al sacrificio più o meno consapevolmente, il pregnante odore del grasso sulla bocca della canna di un ridicolo fucile, il senso della presenza circostante della morte, in perenne e dolcissimo agguato, ma anche l’indimenticabile gusto delle patate rimediate nelle isbe, e il ritorno al vero giorno, alla vera vita. Quel chiodo non è così riuscito a soffocare la sua voce. Una volta tornato a casa, tra le sue montagne, Rigoni Stern comprese che sarebbe stata questa la sua missione: essere il cantore della speranza che non si arrende, non decade, non è intaccata dalle nostre angosce, qualunque ne sia la ragione.
Nel resto della sua vita Mario Rigoni Stern ci ha raffigurato con la sua penna frammenti di grandiosa bellezza, insegnandoci a ripartire indomiti, a non cedere all’egoismo e alla grettezza, a credere invece nella fratellanza, nella solidarietà, nella condivisione, perché è il senso stesso della vita a imporcelo. Oltre alle memorabili storie di animali, come possono essere quella del capriolo rimasto ferito in un rastrellamento che diventa una vendetta partigiana, del picchio rosso, della pernice bianca, delle api e dell’urogallo come del fagiano di monte o dell’asina Giorgia, da vero uomo delle montagne Rigoni Stern ha saputo descrivere magistralmente l’eterno ritorno a casa e raccontare la vita quotidiana che riparte comunque ogni giorno serenamente, con i suoi insostituibili personaggi.
Le sue dolorose cicatrici interiori sono diventate in questo modo le note di uno spartito di musica rigenerante, perchè radiosa e pulsante di amore in tutto ciò che significa essere semplicemente un uomo che abita il suo tempo e interagisce con la terra cui appartiene.
Altrettanto grande egli è stato nel descriverci il suono e le suggestioni dei temporali di primavera, come a rievocare il sordo rimbombo e le voci confuse dei commilitoni perduti durante la guerra, i segni sulla neve per ricordarne anche gli ultimi passi, l’affannata fuga per la vita dei ghiri e delle lepri, perché in fondo forse siamo davvero così pure noi uomini.
Tutti i libri di Mario Rigoni Stern sono animati e amati dalla gente semplice, perché è al loro nobile animo ch’egli non cesserà di rivolgersi. Usciti stremati da una guerra insensata come tutte le altre, gli abitanti del suo cuore ripartono dalle macerie dell’anima e dai relitti del loro tempo per ricomporre i tasselli di una nuova esistenza e rivivere i giorni di una rinnovata speranza.
Rigoni Stern conosceva erbe, pietre, funghi, canti di uccelli, e amava particolarmente gli alberi, intrecciando le proprie riflessioni sulla consonanza di destino fra questi e gli uomini, chiusi nella parabola eterna di nascita e morte, di gioia e sofferenza. Sapeva che lassù, in un posto lontano dai clamori e dagli affanni, la neve scende sempre silenziosa e puntuale, e che la natura alla fine dà una risposta a tutti: il dolore straziante inferto dal male, che pure si accanisce sull’uomo in ginocchio, è soltanto una componente essenziale della nostra vita.
Le persone comuni hanno raccolto il suo piccolo-grande messaggio, gli hanno voluto e gliene vorranno sempre: non esiste un miglior premio della riconoscenza silenziosa della tua stessa gente.
E adesso, Sergente Mario, siamo noi ad augurare buon cammino a te che ti sei avviato per precederci, come si sente in dovere di fare una seria, scrupolosa e premurosa guida.
Nel confortevole tepore della notte eterna, finalmente ritrovati, i tuoi fedeli compagni della raccolta interiore alla solitudine avranno molte cose da ricordarti.

venerdì 25 luglio 2008

DOMENICO CARIOLATO (1835-1910): UNO DEI MILLE DI GIUSEPPE GARIBALDI


La ricostruzione dell'avventurosa vita di Domenico Cariolato è ora disponibile in versione digitale nell'e-book intitolato "IL SOLDATO FANCIULLO E GARIBALDI", scaricabile dal Kindle Store di Amazon.
Si tratta dei risultati di due anni di studio sulla figura del patriota berico e sugli avvenimenti che lo videro coinvolto: da quand’egli, nel 1848, appena dodicenne, si distinse nella difesa di Vicenza assediata dagli Austriaci, alla sua partecipazione con la camicia rossa nella leggendaria Spedizione dei Mille; nell’impegno civile e sociale dopo il raggiungimento dell’Unità, attraverso il perenne legame di affetto e stima con Garibaldi; nella difesa dei valori in cui egli credette fino alla fine dei suoi giorni.
L'e-book, raccolta completa di tutta la documentazione reperita da Saverio Mirijello durante il suo lavoro di ricerca e approfondimento, è leggibile su dispositivi iPhone, PC, Mac oppure Ipad. Sempre allo stesso indirizzo è inoltre possibile scaricarne gratuitamente le prime pagine.
Altre info sul patriota risorgimentale vicentino sono ora disponibili sul sito dedicato: domenicocariolato.blogspot.com

(Aggiornamento: domenica 28 Ottobre 2012)

domenica 20 luglio 2008

ULTIMA LETTERA D'UN SOLDATO: L’AMORE CHE VINCE LA GUERRA

Ci sono lettere che coniugano alla perfezione Amore e Morte: sono quelle dei condannati a perdere di lì a poco la vita, da chi è consapevole di vivere le ultime ore della sua esistenza. Presso il Museo del Sacrario Militare di Asiago (Vicenza) è esposta una lettera-testamento (http://www.anacanove.it/museoguerra/?Lettera_testamento_del_Ten._Adolfo_Ferrero), terminata nella notte della vigilia della battaglia dell’Ortigara (giugno 1917) dal ten. Adolfo Ferrero, torinese, 20 anni, appartenente al 30° Reggimento Alpini Battaglione Val Dora. Decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare, laureato ad Honorem in Lettere e Filosofia, cadde il giorno dopo averla scritta e le sue spoglie riposano nel Sacrario Militare di Asiago. All'ingresso del Sacrario è esposta anche una copia della stessa lettera, vergata due volte dallo stesso soldato affinché potesse giungere a destinazione ai suoi cari. Ai margini dei fogli che la compongono si scorgono delle macchie: sono di sangue.
Ogni volta che la leggo, provo un tuffo al cuore. Testimonia l’attesa consapevole di una tragica fine, comunque eroica ma pur sempre di un giovane appena affacciatosi alla cognizione della responsabilità nella vita, verso sé stesso e nei confronti degli altri. Totalmente appassionata e dall’amarissimo sapore, è anche l’ultimo appello di un disperato attaccamento alla vita e al ricordo degli altri. Essa è divenuta patrimonio universale, e oggi possiede un valore simbolico inestimabile. Non esiste estate in cui, quando mi reco sull’Altopiano dei Sette Comuni e intravedo il Sacrario, non penso, almeno per un momento, a quel giovanissimo ufficiale italiano e a quei fogli che gridano incessantemente amore con tutta la forza possibile. Mi fa piacere ricordare che lui e il suo esempio rimangono vivi e palpitanti, e che il suo nome non è andato perduto nella nebbia della guerra. Il testo di quel tenente caduto sull’Ortigara è la rappresentazione perfetta dello stato d’animo e del coraggio di tanti altri uomini, fossero rispettivamente suoi sottoposti o pari grado (molti soldati, se sapevano scrivere, ci riuscivano a stento), e credo esprima perfettamente ciò che tutti provavano nelle stesse ore. Quando vi capita di passare da quelle parti, non dimenticate di rivolgere loro un piccolo pensiero. Non vi costa nulla e nello stesso tempo potrete continuare a spostarvi in libertà e ad assaporare la vita del vostro giorno, magari insieme a chi amate. Anche questo è un modo per ringraziare Adolfo Ferrero e tutti gli altri Caduti per averci concesso di godercela.

giovedì 17 luglio 2008

OLTRE IL MURO CHE ABBIAMO DENTRO

Karl Unterkircher aveva 38 anni. Più che scalare una montagna, aveva come obiettivo sfidare un muro dentro di sé: quello della paura. Ognuno di noi ne ha davanti qualcuno, in una qualsiasi forma e materia, che sia di roccia, di ghiaccio, di carta o di parole. Karl, stella ascendente dell’alpinismo italiano, aveva scalato l’Everest e il K2 nella stessa stagione. Come un sub delle altezze estreme, riusciva ad arrivarci senza l’ossigeno, che ad una certa quota viene a mancare, e l’aria rarefatta ti può togliere il respiro e la vita. Il Nanga Parabat aveva spento 31 vite prima che nel luglio 1953 uno scalatore austriaco, Hermann Buhl, ne toccasse il limite divenuto quasi sacro, e lo profanasse per sempre. Cinquantacinque anni dopo gli 8.000 non fanno più parte delle cosiddette “sfide impossibili” per un uomo. Adesso la sfida da lanciare sta nel giungere in cima attraverso una parete: nessuno finora c’è riuscito. Ci saranno ancora dei tentativi inutili, ma prima o poi qualcuno ce la farà. Nelle ultime pagine elettroniche che Karl Unterkircher ha lasciato a tutti attraverso il suo diario pubblicato su Internet, aveva scritto il 13 luglio: “Poco prima di partire uscivo dal bar e ho inciampato in un vaso di fiori”. Scherzava sul fatto che qualcuno pensasse come diavolo poteva sfidare una montagna se non riusciva nemmeno a stare in piedi a livello del mare. Forse, col facile senno di poi e le ormai inutili ricerche di una logica nella morte di un alpinista scrupoloso come lui, è come se avesse ricevuto un sinistro preavviso di ciò a cui andava incontro. Il suo muro finale, prima che lui lo cercasse, lo stava già aspettando, con le sue insidie celate ma non troppo, come le scariche di ghiaccio, quegli stessi ostacoli di forza incontrastabile, soprattutto imprevedibile, di cui Karl aveva paura guardandoli dalla sua tenda, ma che non ha esitato ad affrontare, nonostante tutto gli dicesse che era meglio ritornare sui suoi passi. La sua morte ci ha ricordato che ovunque c’è sempre un rischio che ti attende per metterti alla prova di te stesso, ed esiste una conseguente responsabilità che ti devi assumere per contrastarlo e andare avanti, oltre. Anche se rimarrai solo e verrai abbandonato dai tuoi compagni improvvisati, di ventura, o perfino di sangue, perché oltre un certo limite nessuno ti può aiutare, perché deve badare già a sopravvivere. Molti uomini, la maggior parte dei quali rimarranno sconosciuti, nel momento in cui leggete queste righe stanno scalando altre montagne. Davanti a loro, con la stessa legittima paura di Karl, osservano una grande parete. Sanno, come lui, che non torneranno indietro, che alla fine rimarranno anche soli, eppure avanzeranno ugualmente verso di essa.

ROY PACI & SAVERIO: TODA JOIA TODA BELEZA !


(POVOLARO DI DUEVILLE (VI) - ROCKANDO: BACKSTAGE CONCERTO ROY PACI & ARETUSKA - ESTATE 2007)

mercoledì 16 luglio 2008

GIUSTI PER COSA?

A pensarci ogni volta, mi sembra strano vivere in un Paese dove, sei hai meno di 40 anni, sei considerato (almeno sul piano lavorativo) “giovane”, mentre se conti più di 45 primavere ti passano, sempre lavorativamente parlando, per “vecchio”. Persiste, ed è purtroppo spesso riscontrabile coi fatti, una deteriorata mentalità secondo cui, se sei produttivamente “imberbe” (tra le 20 e le 39 candeline spente), cioè se manchi di una significativa (?) esperienza lavorativa rappresenti, ma soltanto a parole, una “risorsa da valorizzare”, mentre all’atto pratico costituisci più facilmente un problema da gestire. In poche parole, se ti trovi sulla fatidica soglia della cosiddetta “maturità lavorativa”, hai praticamente a tua disposizione un lustro di tempo (ovvero lo spazio temporale tra le 40 e le 44 tacche sulla tua spalla) per essere lavorativamente “giusto”. “Giusto” sì, ma per chi e cosa?
Non c’è da abbattersi, perché di certo il futuro è a favore di chi non si ferma a compiangersi. Occorre invece continuare a studiare, prepararsi, aver “fame” di approfondire le cose, tenere insomma aperta la propria mente, senza mai pensare di vivere di rendita con le nozioni acquisite fino ai 35 anni, perché la cultura è prima di tutto una difesa, ricordando che ogni giorno vengono allegramente tagliate molte ali a tanti giovani (di spirito, non solo di anagrafe) che propongono idee originali, innovative o finanche idiote, ma che almeno ci provano.
E allora, se avete tra i 20 e i 40 anni, se sentite dirvi in italiano o nel vostro dialetto: “Giovane, ma dove credi di andare?”, sappiate che siete molto probabilmente sulla strada giusta. O che almeno, ci state provando.

sabato 12 luglio 2008

COSA RESTA DI LLORET DE MAR

Sono le 4 di un’altra interminabile notte brava trasformata in giorno “como si hoy fuera el último día de mi vida”, e una ragazza italiana s’è persa in quest’ora, nello spazio estremo di una vita parallela e breve che ti sconvolge il ritmo biologico, il buon senso, la capacità di controllo, i tuoi freni inibitori, in quel torpore alcolico d’ordinanza che aleggia tra le lunghe teorie di luci stordenti e le adrenaliniche insegne dei giovani locali sul mare, con l’azzeramento del sonno, le facili sbronze adolescenziali, le pericolose calate, le favolose ciucche e le vaghe promesse di un qualsiasi posto di vacanza. Non si può proibire lo sballo, non è necessariamente un incubo che ti rende un relitto umano e ti inghiotte, anche se Lloret de Mar, con le sue innumerevoli porte aperte, le sue spiagge quasi inutili, la sua ebbrezza artificale e la sua notte dagli occhi sempre spalancati, resta un luogo sospeso nel vuoto come tanti altri dai prezzi accessibili che gli assomigliano e che sono dappertutto, in cui continuare a sognare la rivincita sulla quotidianità dove ci si fa e ci si disfa dimenticando talvolta le istruzioni fondamentali di noi stessi, tralasciando pezzi che una volta smontati non saremo in grado di ricomporre come prima. E’ una storia già scritta, quella di una ragazza normale di nome Francesca, che faceva cose semplici, che aveva aspirazioni legittime e nutriva i sogni d’una qualsiasi ragazza di 23 anni: moralmente integra, rigorosa il giusto, esuberante ed euforica il giusto, timorosa il giusto. Alla tua età non ci si può pentire per il proposito d’indossare il vestito più sexy, per la speranza d’incontrare nuove persone pur nella piacevole confusione del divertimento, anche il più banale, tra birre rancide e alitate canine. Non puoi separarti dall’idea di una contentezza da dividere spensieratamente in moltitudine solo perché puoi essere la vittima designata di un bruto nei paraggi. Certo, il divertimento ha le sue regole e la sua follìa. Però non è nemmeno condannabile lasciarsi prendere nelle nuvole della frivolezza per poco, perché tutti abbiamo tirato tardi la notte, riso irragionevolmente, ballato senza musica, e ci siamo sentiti in fusione anche fisica senza per questo permettere a chiunque di sfregiarci fuori e dentro. Nessuno può rubarti un momento di svago, magari facendoti bere un mix di alcol e droga per approfittarsi tranquillamente di te. La questione rimane piuttosto fino che punto divertirsi rimanendo vigili di sé stessi, col passo fermo sul confine tra coscienza e coglionaggine. Dopo, a parole, tutto è inutile e nulla ti restituisce la vita e forse la dignità che avevi. Nel dolore che si prova per una vita persa assurdamente, non c’è infatti alcunchè di nuovo a riscoprire l’essenza che scompare mentre il superfluo insiste, persiste, imperversa, e infierisce. Non c’entra nulla la condanna alla bramosìa scanzonata di buttarsi a capofitto nelle tenebre dove sono in agguato mille insidie, inclusa la morte. Nemmeno il fatto che esistano menti criminali, o di sconvolti dall’irresponsabilità dei loro atti, in perenne attesa di fronte all’acqua intorbidita con la loro invisibile canna da pesca. Perché c’è chi il tempo è capace di sospenderlo e di riprenderlo un istante dopo il divertimento, e chi si ostina a stordirsi e a stordire per trattenerlo, cercando pure di farlo scorrere all’indietro. E c’è sempre chi alzerà le spalle, dopo, e dichiarerà “in fondo se l’è cercata”. Ma essere presenti per affermarlo non ci rende migliori né ci conferisce il diritto inappellabile a ergerci a giudici degli altri. Che silenzio resta dopo una morte che non ha senso? O dopo un “errore”, come può penosamente blaterare uno stupido assassino dopo la cattura? Eppure è la stessa sensazione di impotenza, di assenza, d’inspiegabile pieno o come altro vogliamo chiamarlo, di quello che conosciamo tutti, perché non ci sono mai troppe parole per definirlo. Non è irrecuperabilmente ingenua o da condannare una ragazza che vuole soltanto staccare per un po’ dalla vita di sempre e divertirsi, in compagnia come da sola. Gli uomini lo sanno, e devono aver coraggio di ammettere che per una donna abbassare le difese per allegria non è per niente il segnale di un’autorizzazione a qualunque trasgressione, come all’umiliazione totale. Sesso, droga, sensazioni estreme. Circolano sempre troppi stereotipi, troppa retorica, troppe insinuazioni durante le celebrazioni delle persone che non possono rispondere. E’ così allora che la prima cosa che ci salta in mente e che diciamo è che te la sei andata a cercare, Federica, perché non sappiamo trovare risposte migliori ad un nostro possibile e irrimediabile comportamento idiota. Mentre dovremmo ricordarti e consigliarti, questa volta come tutte le altre in cui è capitato e purtroppo capiterà in un luogo di svago caotico e un po’ modaiolo, di non trascurare il tuo bicchiere vicino a gente che non conosci bene, scegliere di non restare sola nella notte, di fidarti meno, anche di te stessa, e di coprirti maggiormente, in confidenza verbale come fisica. E’ bastato fottutamente poco per perderti, e adesso che a te non serve più, chiederti scusa come a tutte le altre che dopo aver subìto un atto bestiale, e comunque a tradimento, devono addirittura difendersi perché qualcuno le bolla come provocatrici, mentre è chi le aggettiva ad aver paura di ammettere che basterebbe una sola variabile per voltare in bene un finale altrimenti tragico, e a tramutarlo in un racconto da riportare a casa con l’allegria della gioventù. Non è stata colpa tua, lo sappiamo, come di tutte le altre ragazze che perdono l’ingenuità e qualcos’altro di più importante, perché sarebbe altrimenti come riconoscere che è dipeso unicamente da te, e non da chi hai incontrato sulla tua strada. La nostra raccomandazione a restare comunque in guardia la prossima volta è come la lezione da accettare e riportare indietro, dimostrando a te stessa di averla compresa, perché vorremmo riparlarne, rivederti felice per lo scampato pericolo e sorridente com’eri e ti ricorderanno. E’ l’unico modo per pensarti finalmente a casa, tra chi ti ama e ti rispetta.

sabato 28 giugno 2008

GIGI MENEGHELLO E IL VALORE DELLA PAROLA COME IMMAGINE

Vicenza è una delle province che più hanno consegnato al nostro Paese e al mondo, soprattutto nel corso del Novecento, un fondamentale contributo sul piano della Letteratura di qualità. Ma è sbagliato pensare che la qualità di un’opera culturale sia più importante della quantità del tempo impiegato a comporla, perchè soltanto un rapporto continuo e lungo può trasmettere principi e conoscenze. Ottimi insegnamenti, esposti in pochi minuti, non vengono assimilati.
Ricordare i nostri migliori scrittori è dunque ricordare anche a noi stessi che oltre alle sue ricchezze esteriori la nostra terra conserva nel suo invisibile forziere il patrimonio d’insegnamento d’una inesauribile memoria.
Un anno fa, nel breve passaggio d’una notte di mezza estate e in un mese di giugno altrettanto torrido, anche Luigi Meneghello è uscito di scena con uno stile da perfetto gentleman, come ci aveva abituati.
E' stato giustamente scritto in questi giorni che rivivere nelle parole dei coetanei (familiari, amici e conoscenti della tua stessa classe) è un fatto normale, ma venire onorati dai giovani della generazione successiva, è qualcosa di veramente speciale. Significa che ti hanno spontaneamente riconosciuto come riferimento: un vero Maestro, capace d’insegnare a chiunque qualcosa di veramente importante, una persona di cui ci si può civilmente fidare, un uomo la cui terra d’origine è stata qui, ma ha costituito solo il piccolo ramo su cui appoggiarsi per aprire le ali e raggiungere tutto il mondo. Significa che sei stato capace di essere locale e globale, com’è d’obbligo oggi. A Luigi (per tutto il mondo), a Gigi (per noi) Meneghello questo è capitato, e il suo spirito libero, come il nostro senso di appartenenza ad un luogo comune a tutti, ne potranno andare sempre orgogliosi. Con la sua scomparsa nulla è veramente finito. Il tema a lui più caro e più citato, il valore magico della parola quale “immagine intensificata delle cose”, resterà con noi, e l’universo meneghelliano, agli occhi, alla mente e al cuore dei suoi stessi abitanti, rimarrà ancora tutto da scoprire e rivisitare.

sabato 14 giugno 2008

PIOGGIA D'ESTATE (Nazim Hikmet)

Pioggia d'estate cade dentro di me
acini d'uva si schiacciano contro i miei vetri
gli occhi delle mie foglie sono abbagliati
pioggia d'estate cade dentro di me
piccioni d'argento volano dai miei tetti
la mia terra corre coi piedi nudi
pioggia d'estate cade dentro di me
una donna è scesa dal tram
i polpacci bianchi bagnati
pioggia d'estate cade dentro di me
senza rinfrescare la mia tristezza
pioggia d'estate cade dentro di me
all'improvviso s'arresta
il peso dell'afa è rimasto dov'era
al termine delle grosse rotaie
arrugginite.

Mi dà particolare soddisfazione sapere che tra i visitatori del mio blog posso contare su lettori così attenti.
Rispondo così con piacere al cortese commento ricevuto nei giorni scorsi, tramite cui mi si chiede di inserire qualcosa di Nazim Hikmet (1901-1963), altro poeta che amo e col quale, leggendo l'autobiografia, ho scoperto di condividere un particolare momento della mia vita.
Nazim Hikmet (Nâzım Hikmet Ran) nacque a Salonicco. Il suo primo contatto con la poesia avvenne grazie al nonno paterno. Questi infatti, oltre che pascià e governatore di varie province, era anche scrittore e poeta in lingua ottomana, vale a dire in una lingua, come scrisse Hikmet stesso, “in cui la maggior parte delle parole erano arabe o persiane”. Hikmet studiò per un breve periodo nel liceo francese di Galatasaray (Istanbul), poi anche nell'Accademia della Marina militare che però dovette abbandonare per ragioni di salute; scappò in Anatolia, dove si svolgeva la guerra di liberazione guidata dal nazionalista Atatürk (Mustafà Kemal) e qui fece il maestro di scuola a Bolu. Nel 1921, a soli 19 anni, lasciò il partito kemalista. Scoperti i testi di Marx e la rivoluzione sovietica, dai quali rimase affascinato, decise di emigrare: andò a Mosca e s'iscrisse alla facoltà di sociologia dell'Università comunista dei lavoratori d'Oriente. In questo periodo, sempre continuando a frequentare l'università, Hikmet conobbe Lenin ed incontrò Esenin e Majakovskij. Tornato in patria nel 1924, dovette scappare dopo appena un anno, quando fu arrestato e accusato di collaborare con una rivista di sinistra. Tornato in Turchia soltanto nel 1928 e senza il visto, scrisse vari articoli e componimenti. Fu condannato alla prigione per il suo ritorno irregolare ma nel 1935 gli venne concessa l’amnistia. Nel 1938 fu condannato dal governo turco, fortemente anticomunista, a 28 anni e 4 mesi di prigione per le sue attività antinaziste ed antifranchiste. Nel 1949 si creò una commissione che si battè per la sua liberazione (di questa facevano parte, tra gli altri, Jean Paul Sartre e Pablo Picasso) ed un anno dopo Hikmet venne liberato. Si sposò con Münevver Andaç, traduttrice in francese e polacco. A causa delle forti pressioni prodotte dal governo, fu costretto a ritornare in Unione Sovietica, ma la moglie e il figlio non poterono seguirlo. Nel 1959 perse la cittadinanza turca e scelse di diventare cittadino polacco. Nonostante un secondo attacco di cuore continuò a viaggiare e a lavorare intensamente, visitando l’Europa dell’Est, Roma, Parigi, L’Avana e Pechino. Nazim Hikmet morì a Mosca il 3 giugno 1963 (nello stesso giorno in cui spirava papa Giovanni XXIII), colpito da un infarto. Nel 2002, ad un secolo dalla sua nascita, a seguito anche alla petizione firmata da oltre mezzo milione di cittadini turchi, il governo turco ha deciso di ridare a Nazim Hikmet la cittadinanza turca toltagli nel 1951.
Ho voluto descrivere un po’ la vita di Hikmet perchè merita di essere conosciuta almeno nelle linee essenziali e per contribuire a far sì che chi non conosce molto la sua esperienza umana possa meglio approfondirla per apprezzare maggiormente la sua poetica. Protagonista (spesso vittima) di una esistenza assai travagliata, Hikmet era capace nello stesso tempo di far piangere e sorridere, di amare, di soffrire e di cantare la bellezza della vita. “E cantava - racconta il suo amico Pablo Neruda - prima piano e poi sempre più forte, a squarciagola, per vincere la sua debolezza e rispondere ai suoi torturatori. Cantava in mezzo agli escrementi delle latrine, dove lo avevano costretto a stare dopo averlo fatto a camminare fino all'esaurimento delle forze”.


ALLA VITA

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non é uno scherzo.

Prendila sul serio ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla é più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

Chi meglio di Hikmet, e di pochi altri poeti, può esaltare il dolore e la gioia della vita per cui vale comunque la pena affrontarla?

IL PIU' BELLO DEI MARI


Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.

Grazie a Nazim Hikmet per quello che ci ha dato, nonostante tutto ciò che da uomo ha subito da parte dei suoi simili, e grazie ancora all’anonimo lettore del mio blog per avermi permesso di ricordarlo in questo piccolo spazio.