mercoledì 5 novembre 2008

L'AMERICA E LA FORZA DI CHI NON SMETTE DI SOGNARE

Il fenomeno Obama ha travalicato l’America e l’onda emotiva, dopo la sua elezione (quale 44.mo presidente degli USA) si sta allargando a tutto il mondo globalizzato, Cina ed Iran compresi. Se l’entusiamo giova, l’esaltazione però nuoce alla politica e c’è il rischio che speranze e attese vengano presto deluse e frustrate. Obama (47 anni) viene infatti spesso definito come un altro Kennedy (che ne aveva 44 anni al momento dell’elezione): il mito di JFK è ancora vivo, anche se più in Europa che in America, ma oggi sappiamo che il vero artefice della legislazione sui diritti civili, e di un welfare americano destinato ad essere smantellato dalle amministrazioni repubblicane nei 30 anni successivi, fu Lyndon Johnson, a suo tempo uno dei presidenti più impopolari. Obama ha dimostrato grande intelligenza e grande abilità nell’organizzare e condurre una campagna elettorale quasi senza errori mentre sia Hillary Clinton che John McCain, i suoi maggiori avversari, ne hanno fatti diversi. È circondato da uno stuolo di consiglieri di grande livello, economisti, diplomatici, sociologi, il meglio insomma che oggi possa offrire l’America. Ciò che consiglia cautela è piuttosto la situazione obiettiva che Obama erediterà, caratterizzata da una crisi di cui resta ancora da capire il percorso, di scegliere i mezzi per farvi fronte a cui il Paese arriva dopo anni difficili con risorse limitate da una politica demogogica di tagli fiscali indiscrimati, dai costi altissimi di una guerra ancora aperta con una moneta inflazionata che non potrà più occupare la posizione dominante che ha mantenuto per più di mezzo secolo. Ha mandato in soffitta, al termine dell’era di Bush, la visione unilaterale e muscolare dei rapporti internazionali, le teorie neo-con, della democrazia esportata sulla punta del fucile. Ha riscoperto lo statalismo keynesiano, dopo la lunga parentesi del liberismo sfrenato, della finanza allegra e selvaggia, incubatrice delle attuali sventure. Ma ha soprattutto rotto gli argini del conformismo e delle convenzioni, degli assetti costituiti del potere, testardamente maschile, rigorosamente bianco. Sul palcoscenico delle primarie e poi della maratona presidenziale hanno fatto il loro ingresso e lasciato il segno Hillary Clinton, a lungo considerata la prima potenziale presidentessa della superpotenza Usa. Poi Sarah Palin, con la sua carica comunque carismatica di paladina dei valori ipercristiani, del ventre conservatore del paese, di un diverso modo di essere donna e femminista.Ed infine lui, il fenomeno Obama, primo nero della storia Usa a conquistare la leadership di uno dei due grandi partiti statunitensi; a sconfiggere la formidabile macchina da guerra di Hillary nella primarie. Ed a puntare, lui, figlio ed erede di 300 anni di sofferenza ed umiliazione della gente nera, alla conquista della Casa Bianca. Un’impresa condotta con grande intelligenza, freddezza, lungimiranza e disciplina, pregio quest’ultimo tradizionalmente alieno alla macchina politico-elettorale del partito democratico. Una battaglia combattuta con un avversario tenace ed esperto come McCain. Anch’egli simbolo, nonostante l’età avanzata e la lunga militanza a Washington, dell’urgenza di cambiare strada dopo otto lunghi anni di regno busciano. “Change!”, invocavano a gran voce ieri decine di milioni di americani per ora in fila davanti ai seggi. E cambiamento, in ogni caso, hanno avuto. Perchè la grande forza dell'America sta nella sua irrefrenabile voglia di continuare a sognare.

Nessun commento: