mercoledì 14 gennaio 2009

CONFLITTO ISRAELE-PALESTINA: LA SOLUZIONE NON VERRA' DALLE ARMI

Che importanza ha davvero sapere, oggi come ieri, quale popolazione abbia ragione in Terra Santa? La violenza genera violenza, rancori che non si assopiscono mai del tutto, ferite interiori che rimangono, ed è sempre una soluzione sbagliata. Piuttosto che seguitare ad alimentare l'odio civile, perchè non organizzare o dare più spazio a una marcia di Ebrei e Palestinesi, Cattolici e Musulmani, che chiedono ai governi soltanto la Pace? Istigare continuamente alla rivolta armata, bruciare simboli o mostrare solo disprezzo per l'antagonista, come si continua a vedere in alcuni cortei, non ha senso, e non ne produrrà di migliore.
Il ricorso alle armi è sia una mezza vittoria sia una mezza sconfitta per entrambe le parti. La cultura della violenza non educa a nulla, ma serve solo ad addestrare futuri soldati. Il dialogo civile, sociale, culturale e interreligioso, è la vera arma vincente, perchè rappresenta prima di tutto il riconoscimento dell'antagonista, e non del nemico. Siamo uomini, abbiamo tutti dei difetti ma ciascuno possiede anche caratteristiche che possono riscattarci dagli errori. Per questo credo che la guerra, in fondo, sia voluta mantenere in larga parte da persone che stanno al potere e da soggetti ed entità esterni ai rispettivi confini dei contendenti, mentre nella stessa Gaza esistono sicuramente amicizie anche tra persone di etnie diverse.
Abbassare le armi una buona volta, incontrarsi davvero e riconoscere gli errori commessi da una parte e dall'altra, rappresenterebbe un segno di grandiosa responsabilità reciproca ed un importante messaggio, forse per stemperare definitivamente anche altri conflitti esistenti nel Mondo.
Vivere, se non da ottimi, almeno da responsabili vicini, senza più il bisogno di uccidersi, è già un ottimo risultato: ripensare a riformulare ciò costituirebbe finalmente un esempio di grande saggezza da parte di Israeliani e Palestinesi, un ritorno di quella preziosa virtù dei loro stessi antichi padri che tante lezioni ha reso all'Umanità. Fin qui si è provato di tutto, con esiti fallimentari, soprattutto sulla pelle di un numero indefinibile di inermi persone: perchè non provare adesso a costruire qualcosa che rimanga, attraverso una vera Pace Responsabile?

giovedì 8 gennaio 2009

E IN TRINCEA FIORIVANO I NEOLOGISMI

(Da “Il Giornale di Vicenza”, mercoledì 7 gennaio 2009, "Cultura & Spettacoli", pag. 38)
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STORIA. NUMEROSE LE TESTATE, DAI NOMI FANTASIOSI E CARATTERISTICI: LE TIPOGRAFIE ERANO NELLE IMMEDIATE RETROVIE, ANCHE A VICENZA E A PIOVENE ROCCHETTE
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Il ruolo dei giornali per le truppe durante la Grande Guerra
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di Saverio Mirijello
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Durante la Grande Guerra i giornali di trincea rivestirono particolare importanza per i soldati. Con il loro linguaggio spesso canzonatorio, accompagnati da molte illustrazioni e vignette, essi supplivano nelle lunghe attese in trincea al bisogno di dialogo col mondo civile, all'interesse per l'informazione e al desiderio di sdrammatizzare i disagi vissuti quotidianamente: il comune fante si riconosceva così nelle pungenti caricature, nelle argute sentenze, perfino nelle mordaci battute e nei proverbiali aneddoti. È un patrimonio ricchissimo che offre uno spaccato interessante dei cambiamenti della società e della mentalità dell'epoca. I fogli più diffusi e letti tra le truppe italiane traevano i loro titoli da varie fantasie ispiratrici: se alcuni si ricollegavano ai luoghi di combattimento ("Il Grappa", "L'Astico", "Il Montello"), altri riproponevano massicciamente simboli virili e militari ("Il grigio verde", "Il respiratore", "La giberna", "La giberna dei lettori", "La baionetta", "La bomba a penna", "La trincea", "La potenza", "La tradotta"), veementi esortazioni e pronte adesioni alla causa ("Sempre avanti", "Signor Sì") o un piglio cronachistico e caricaturista ("Gli avvenimenti", "Il lapis", "San Marco", "La notizia al fante", "L'eco caricaturista", "La ghirba", addirittura "La cornata"). Si tratta di giornali e ciclostilati dai nomi più o meno altisonanti e dalle alterne vicende (alcuni uscirono per poco tempo, altri durarono fino al 1919: erano pubblicazioni giocoforza irregolari, date le difficoltà del periodo). Le loro tipografie si trovavano prevalentemente vicine alle zone di guerra (anche "L'Astico" e "Signor Sì" si stamparono a Piovene e a Vicenza) e gli argomenti trattati non erano necessariamente superficiali o banali: spaziavano dalla mera propaganda alle campagne contro l'alcol, dai concorsi d'inventiva tra combattenti all'umorismo graffiante e ai giochi di svago. I NEOLOGISMI. Frequenti erano anche i neologismi: i fogli di trincea si rivelarono infatti un'autentica miniera di nuovi vocaboli e forme espressive. Molti termini e perifrasi, oggi utilizzati abitualmente, nacquero e si diffusero proprio a quel tempo. Ad esempio, "asso" ("campione in qualche specialità") era riferito specialmente a chi "atterrava" molti aeroplani. Con "capocchia" si indicava la testa. Allo stesso modo, fare una cosa "a capocchia" voleva dire farla senza testa. "Cappello", spiegava "L'Astico", tra i fogli più letti dai combattenti sulle montagne vicentine, era «il risentimento prodotto da una lesione alla vanità, all'ambizione, alla presunzione. Regola militare: chi prende cappello, paga da bere ai compagni. Quando il risentimento è molto forte si chiama "prender cilindro"»."Tagliare la corda", esattamente come s'intende oggi, significava scappare. "Fesseria" indicava una minchioneria commessa da un militare, per cui "fesso" inevitabilmente era il minchione. "Far fesso qualcuno" significava dunque imbrogliarlo: «Far fesso il superiore è l'ideale del cattivo inferiore che finisce col far del male anche a sé stesso perché l'onestà è la furberia più sicura»."Grana" equivaleva a mancanza, irregolarità, cosa non liscia, una contravvenzione al regolamento. Quando il superiore si accorge dell'irregolarità e ne chiede conto, "pianta la grana". Se non ne lascia mai passar una si chiama "piantagrane". Per "scoppia la grana" si soleva intendere quando qualcuno sta per piantarla. Con "passare" ci si riferiva al trasferimento d'una cosa rubata. Gli artiglieri dicevano: "è passata in artiglieria", mentre tra i fanti era più comune: "è passata in fanteria". "Scassato", termine giunto, per così dire, intatto fino ai nostri giorni, significava guasto, rotto ("s'è scassato una gamba"). Così "moka", il caffè dei soldati (frase tipica anche sul fronte vicentino: "Non è ancora venuto su il moka"). Con "pignolo" la truppa indicava il superiore pedante che si perde in minuzie, mentre con "ciclamino" veniva bollato l'imboscato "nel più profondo del bosco". Esistevano pure neologismi esilaranti, tra cui "culiferica": sulla neve o sull'erba bagnata era "il mezzo più rapido per andar giù". Bastava infatti "sedersi, e in pochi minuti si arriva a destinazione. Ma… salutami i pantaloni!". Davvero, altri tempi.

mercoledì 7 gennaio 2009

UN SOGNO (QUASI) IMPOSSIBILE

Nel 1792 un buon numero di schiavi neri parteciparono ai lavori di edificazione della Casa Bianca, e in tutto ben 12 presidenti degli Stati Uniti furono proprietari di schiavi, 8 di loro mentre erano in carica. Tra meno di 2 settimane, una famiglia di afro-americani prenderà ufficialmente possesso della Casa Bianca. Il padre di Barack Obama era originario del Kenya. E un trisavolo di sua moglie Michelle, la nuova first-lady, come pure ormai molti sanno, era uno schiavo in South Carolina. A volte, ciò che sembra impossibile diviene realtà. Chissà che un altro sogno impossibile possa realizzarsi, un sogno per realizzare il quale sarebbe assolutamente necessario il massimo sforzo di Barack Obama: la pace tra israeliani e palestinesi. Sarà estremamente difficile, per non dire quasi impossibile. Dopo aver assunto il potere, 8 anni fa, George W. Bush disse a un fidato collaboratore: “Non ci sono premi Nobel da vincere nel conflitto israeliano-palestinese”. Bush in Medio Oriente si dedicò così ad altre cause, con i noti risultati. Ma come Obama disse mesi fa in un discorso pronunciato a Washington davanti all’American Israel Public Affairs Committee, il sacro libro ebraico del Talmud contiene un imperativo: “Tikkun olam”, ovvero l’obbligo di riparare i danni del mondo. Può darsi che Barack Obama in 4 o in 8 anni alla Casa Bianca non possa vincere alcun premio Nobel per la pace o riparare alcunchè tra israeliani e palestinesi, ma gli rimane almeno l’obbligo morale di provarci. Il costo di non farlo si paga in un alto tributo di sangue, come quello che scorre a Gaza in questi giorni. La storia dimostra che talvolta si può realizzare l’impossibile: irlandesi e inglesi hanno di fatto risolto un conflitto che durava dai tempi di Oliver Cromwell. E il 20 gennaio il primo presidente afro-americano entrerà alla Casa Bianca, una casa costruita con le mani e la schiena di molti anonimi schiavi neri. (Un ringraziamento personale a Enrico Franceschini)