sabato 28 giugno 2008

GIGI MENEGHELLO E IL VALORE DELLA PAROLA COME IMMAGINE

Vicenza è una delle province che più hanno consegnato al nostro Paese e al mondo, soprattutto nel corso del Novecento, un fondamentale contributo sul piano della Letteratura di qualità. Ma è sbagliato pensare che la qualità di un’opera culturale sia più importante della quantità del tempo impiegato a comporla, perchè soltanto un rapporto continuo e lungo può trasmettere principi e conoscenze. Ottimi insegnamenti, esposti in pochi minuti, non vengono assimilati.
Ricordare i nostri migliori scrittori è dunque ricordare anche a noi stessi che oltre alle sue ricchezze esteriori la nostra terra conserva nel suo invisibile forziere il patrimonio d’insegnamento d’una inesauribile memoria.
Un anno fa, nel breve passaggio d’una notte di mezza estate e in un mese di giugno altrettanto torrido, anche Luigi Meneghello è uscito di scena con uno stile da perfetto gentleman, come ci aveva abituati.
E' stato giustamente scritto in questi giorni che rivivere nelle parole dei coetanei (familiari, amici e conoscenti della tua stessa classe) è un fatto normale, ma venire onorati dai giovani della generazione successiva, è qualcosa di veramente speciale. Significa che ti hanno spontaneamente riconosciuto come riferimento: un vero Maestro, capace d’insegnare a chiunque qualcosa di veramente importante, una persona di cui ci si può civilmente fidare, un uomo la cui terra d’origine è stata qui, ma ha costituito solo il piccolo ramo su cui appoggiarsi per aprire le ali e raggiungere tutto il mondo. Significa che sei stato capace di essere locale e globale, com’è d’obbligo oggi. A Luigi (per tutto il mondo), a Gigi (per noi) Meneghello questo è capitato, e il suo spirito libero, come il nostro senso di appartenenza ad un luogo comune a tutti, ne potranno andare sempre orgogliosi. Con la sua scomparsa nulla è veramente finito. Il tema a lui più caro e più citato, il valore magico della parola quale “immagine intensificata delle cose”, resterà con noi, e l’universo meneghelliano, agli occhi, alla mente e al cuore dei suoi stessi abitanti, rimarrà ancora tutto da scoprire e rivisitare.

sabato 14 giugno 2008

PIOGGIA D'ESTATE (Nazim Hikmet)

Pioggia d'estate cade dentro di me
acini d'uva si schiacciano contro i miei vetri
gli occhi delle mie foglie sono abbagliati
pioggia d'estate cade dentro di me
piccioni d'argento volano dai miei tetti
la mia terra corre coi piedi nudi
pioggia d'estate cade dentro di me
una donna è scesa dal tram
i polpacci bianchi bagnati
pioggia d'estate cade dentro di me
senza rinfrescare la mia tristezza
pioggia d'estate cade dentro di me
all'improvviso s'arresta
il peso dell'afa è rimasto dov'era
al termine delle grosse rotaie
arrugginite.

Mi dà particolare soddisfazione sapere che tra i visitatori del mio blog posso contare su lettori così attenti.
Rispondo così con piacere al cortese commento ricevuto nei giorni scorsi, tramite cui mi si chiede di inserire qualcosa di Nazim Hikmet (1901-1963), altro poeta che amo e col quale, leggendo l'autobiografia, ho scoperto di condividere un particolare momento della mia vita.
Nazim Hikmet (Nâzım Hikmet Ran) nacque a Salonicco. Il suo primo contatto con la poesia avvenne grazie al nonno paterno. Questi infatti, oltre che pascià e governatore di varie province, era anche scrittore e poeta in lingua ottomana, vale a dire in una lingua, come scrisse Hikmet stesso, “in cui la maggior parte delle parole erano arabe o persiane”. Hikmet studiò per un breve periodo nel liceo francese di Galatasaray (Istanbul), poi anche nell'Accademia della Marina militare che però dovette abbandonare per ragioni di salute; scappò in Anatolia, dove si svolgeva la guerra di liberazione guidata dal nazionalista Atatürk (Mustafà Kemal) e qui fece il maestro di scuola a Bolu. Nel 1921, a soli 19 anni, lasciò il partito kemalista. Scoperti i testi di Marx e la rivoluzione sovietica, dai quali rimase affascinato, decise di emigrare: andò a Mosca e s'iscrisse alla facoltà di sociologia dell'Università comunista dei lavoratori d'Oriente. In questo periodo, sempre continuando a frequentare l'università, Hikmet conobbe Lenin ed incontrò Esenin e Majakovskij. Tornato in patria nel 1924, dovette scappare dopo appena un anno, quando fu arrestato e accusato di collaborare con una rivista di sinistra. Tornato in Turchia soltanto nel 1928 e senza il visto, scrisse vari articoli e componimenti. Fu condannato alla prigione per il suo ritorno irregolare ma nel 1935 gli venne concessa l’amnistia. Nel 1938 fu condannato dal governo turco, fortemente anticomunista, a 28 anni e 4 mesi di prigione per le sue attività antinaziste ed antifranchiste. Nel 1949 si creò una commissione che si battè per la sua liberazione (di questa facevano parte, tra gli altri, Jean Paul Sartre e Pablo Picasso) ed un anno dopo Hikmet venne liberato. Si sposò con Münevver Andaç, traduttrice in francese e polacco. A causa delle forti pressioni prodotte dal governo, fu costretto a ritornare in Unione Sovietica, ma la moglie e il figlio non poterono seguirlo. Nel 1959 perse la cittadinanza turca e scelse di diventare cittadino polacco. Nonostante un secondo attacco di cuore continuò a viaggiare e a lavorare intensamente, visitando l’Europa dell’Est, Roma, Parigi, L’Avana e Pechino. Nazim Hikmet morì a Mosca il 3 giugno 1963 (nello stesso giorno in cui spirava papa Giovanni XXIII), colpito da un infarto. Nel 2002, ad un secolo dalla sua nascita, a seguito anche alla petizione firmata da oltre mezzo milione di cittadini turchi, il governo turco ha deciso di ridare a Nazim Hikmet la cittadinanza turca toltagli nel 1951.
Ho voluto descrivere un po’ la vita di Hikmet perchè merita di essere conosciuta almeno nelle linee essenziali e per contribuire a far sì che chi non conosce molto la sua esperienza umana possa meglio approfondirla per apprezzare maggiormente la sua poetica. Protagonista (spesso vittima) di una esistenza assai travagliata, Hikmet era capace nello stesso tempo di far piangere e sorridere, di amare, di soffrire e di cantare la bellezza della vita. “E cantava - racconta il suo amico Pablo Neruda - prima piano e poi sempre più forte, a squarciagola, per vincere la sua debolezza e rispondere ai suoi torturatori. Cantava in mezzo agli escrementi delle latrine, dove lo avevano costretto a stare dopo averlo fatto a camminare fino all'esaurimento delle forze”.


ALLA VITA

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non é uno scherzo.

Prendila sul serio ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla é più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

Chi meglio di Hikmet, e di pochi altri poeti, può esaltare il dolore e la gioia della vita per cui vale comunque la pena affrontarla?

IL PIU' BELLO DEI MARI


Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.

Grazie a Nazim Hikmet per quello che ci ha dato, nonostante tutto ciò che da uomo ha subito da parte dei suoi simili, e grazie ancora all’anonimo lettore del mio blog per avermi permesso di ricordarlo in questo piccolo spazio.

giovedì 5 giugno 2008

E' FACILE UCCIDERE UN POETA

Il 5 giugno 1898 a Fuente Vaqueros, nei pressi di Grenada, nasceva Federico García Lorca, poeta di rara sensibilità e di raffinata capacità espressiva. La sua vita fu come il giorno di una farfalla, se paragonata al grande tempo in cui è rimasta la traccia del suo volo: venne fucilato il 19 agosto 1936, durante una guerra civile che insanguinò la Spagna. Il suo corpo non venne mai ritrovato; il suo spirito bambino è però rimasto nel cuore di chi ama l’essenza drammatica e gioiosa della vita e il suo sussurro non smette di sostenerci a indagare e nell'invitarci a riscoprire l’anima più profonda dell’uomo. E' facile uccidere un poeta, impossibile soffocare la sua voce.
E’ quasi notte e il piccolo diamante di Vicenza brilla nella pioggia. Anche per me quello dell’acqua non è mai stato un rumore ma un dolce suono, e García Lorca se lo portò nel suo magico cuore per tutta la vita. Riproporre la sua poesia “Lluvia” (Pioggia) è il mio modo di ricordarlo in questa tarda sera di provincia.

LLUVIA (PIOGGIA)

La pioggia ha un vago segreto di tenerezza
una sonnolenza rassegnata e amabile,
una musica umile si sveglia con lei
e fa vibrare l’anima addormentata del paesaggio.
E’ un bacio azzurro che riceve la Terra,
il mito primitivo che si rinnova.
Il freddo contatto di cielo e terra vecchi
con una pace da lunghe sere.
E’ l’aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori
e ci unge con lo spirito santo dei mari.
Quella che sparge la vita sui seminati
e nell’anima tristezza di ciò che non sappiamo.
La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l’illusione inquieta di un domani impossibile
con l’inquietudine vicina del color della carne.
L’amore si sveglia nel grigio del suo ritmo,
il nostro cielo interiore ha un trionfo di sangue,
ma il nostro ottimismo si muta in tristezza
nel contemplare le gocce morte sui vetri.
E son le gocce: occhi d’infinito che guardano
il bianco infinito che le generò.
Ogni goccia di pioggia trema sul vetro sporco
e vi lascia divine ferite di diamante.
Sono poeti dell’acqua che hanno visto e meditano
ciò che la folla dei fiumi ignora.
O pioggia silenziosa, senza burrasca, senza vento,
pioggia tranquilla e serena di campani e di dolce luce,
pioggia buona e pacifica, vera pioggia,
quando amorosa e triste cadi sopra le cose!
O pioggia francescana che porti in ogni goccia
anime di fonti chiare e di umili sorgenti!
Quando scendi sui campi lentamente
le rose del mio petto apri con i tuoi suoni.
Il canto primitivo che dici al silenzio
e la storia sonora che racconti ai rami
il mio cuore deserto li commenta
in un nero e profondo pentagramma senza chiave.
La mia anima ha la tristezza della pioggia serena,
tristezza rassegnata di cosa irrealizzabile,
ho all’orizzonte una stella accesa
e il cuore mi impedisce di contemplarla.
O pioggia silenziosa che gli alberi amano
e sei al piano dolcezza emozionante:
da’ all’anima le stesse nebbie e risonanze
che lasci nell’anima addormentata del paesaggio!

(Granada, gennaio 1919)

(Da “Federico García Lorca – Tutte le poesie”, I grandi libri Garzanti, Garzanti Editore, Milano 2002)