martedì 20 dicembre 2016

Intervista sul libro "QUELLO CHE SAREMMO STATI" a cura di Alessandro Scandale (La Domenica di Vicenza)

Come questa pietra è il mio pianto che non si vede. La morte si sconta vivendo. È significativa la citazione dalla poesia Sono una creatura di Giuseppe Ungaretti, posta all'inizio del nuovo romanzo dei vicentini Ruggero Dal Molin e Saverio Mirijello Quello che saremmo stati (Attilio Fraccaro editore, Bassano del Grappa). Ungaretti, che si arruolò volontario durante il primo conflitto mondiale sul Carso e che da quella tragica esperienza attinse per scrivere alcuni dei versi più toccanti della poesia italiana - come la celebre San Martino del Carso ("Ma nel cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato") è forse lo scrittore italiano che ha saputo descrivere al meglio, con il linguaggio breve e intenso della poesia, un dramma per molti versi ancora oggi indicibile. Lo stesso dramma che i due vicentini hanno cercato di narrare attraverso una storia realistica, ambientata in un Veneto avviato alla rinascita dopo le tragedie dei conflitti mondiali. Un avvocato vicentino è alla ricerca della verità sul padre mai conosciuto, morto nel corso della Grande Guerra: nei giorni dell'inconsolabile dolore dovuto alla perdita dell'amata madre, l'uomo inizia una ricerca che lo porta a scoprire un inaspettato risvolto del quale non era mai venuto a conoscenza. "Io non ho mai conosciuto mio padre, la guerra me lo ha portato via quando ero ancora troppo piccolo. Di lui non ho alcuna memoria, nemmeno quella di mia madre. Il destino tuttavia, se con una mano ti carpisce gli affetti più cari, con l'altra a volte te ne dona degli altri, e la vita col tempo mi ha saputo regalare una moglie stupenda e due splendidi figli. Ora però, alle soglie dei miei 50 anni, ecco all'improvviso, dal passato, una lettera con una rivelazione sconvolgente..."
Il romanzo storico firmato da Dal Molin e Mirijello è ambientato negli anni 50 tra Vicenza, Bassano, l'Altopiano dei 7 Comuni e il Monte Ortigara. Ne esce un quadro di un Veneto più povero, ma anche più semplice e meno complicato di oggi, in un libro ricco di storia ma anche di storie, per non dimenticare e per comprendere come superare il passato: la storia di un uomo che potrebbe essere uno di noi, e di una donna che rappresenta al meglio la forza femminile. La trama sembra evocare la necessità di far rivivere quella parte di storia riletta dal basso, che ha permeato la nostra coscienza collettiva e oggi rinasce nei cuori di tanti, portandoci il ricordo degli anni migliori, frutto del sacrificio di quanti spesero la loro giovane vita nel sacrificio estremo in difesa della nazione. Gli autori rievocano, con commossa partecipazione ed empatia, episodi storici e al tempo stesso personali ed umanissimi, come la lettera testamento indirizzata ai genitori dal Sottotenente Adolfo Ferrero, piemontese morto sull'Ortigara, in cui si legge "un figlio morto per la Patria non è mai morto". O come la testimonianza sofferta di un alpino bassanese che, ricordando l'Ortigara come il "calvario degli alpini", confessa che più ancora della guerra in sé erano altri elementi a pesare: la sete, ad esempio, vera e propria piaga per i soldati al fronte (come si può anche vedere in una sezione della mostra sulla Grande Guerra attualmente in corso al Museo Civico di Vicenza). Il vero pregio del libro sta, a nostro avviso, nel messaggio chiaro e forte che forse la vera Storia non la fanno tanto le battaglie o le ricorrenze, ma le persone. E tra queste ci sono coloro che hanno vissuto il conflitto in prima lina, ma anche chi la guerra l’ha vista da lontano. Come le donne che, da casa, attendevano i loro mariti, o i figli che ogni giorno si affacciavano alla finestra con la speranza di vedere il padre o il fratello tornare dai campi di battaglia. Così gli autori, raccontando la storia di un uomo alla ricerca della verità sul padre che non ha mai conosciuto per colpa della guerra, raccontano anche un conflitto interiore, un viaggio nel tempo e nella storia attraverso i luoghi che, oggi, sono rimasti un simbolo del nostro territorio. Fino a giungere all'ultimo, commosso e memorabile capitolo in cui sembrano indicarci la via di una fraterna e possibile redenzione, al di là delle guerre e delle ideologie. Una sorta di pietas che supera qualsiasi razionalità, qualsiasi conflitto, per fondersi in un abbraccio che simboleggia un messaggio di autentica e ritrovata pace. Un simbolo da tenere a memoria anche per le tante guerre che ancora oggi infestano questo nostro complicato mondo.
Abbiamo incontrato Saverio Mirijello e dialogato con lui.
Com’è nato questo romanzo a quattro mani con Dal Molin?
"È un libro nato da un’idea condivisa con Ruggero di un testo che parlasse non soltanto della guerra, ma di come le persone ne subiscono la crudeltà, sia direttamente, come i soldati al fronte, sia sul tragico piano delle conseguenze, come i civili. In questo senso la Grande Guerra fu purtroppo un conflitto moderno anche per il coinvolgimento attivo delle popolazioni. Il nostro lavoro - che ci ha impegnati tre anni, dapprima per la fase di documentazione e quindi per la scrittura - è stato un ricordo di tutta la gente che ha patito per un’intera vita il dolore di un’assenza".
La vicenda valorizza anche la figura femminile, come nel rapporto di profondo amore del protagonista con la moglie?
"Quella di creare un personaggio femminile è stata un’idea precisa che avevo. Il fondamentale ruolo delle donne nella Grande Guerra, come sacrificio e come impegno, per lungo tempo non è mai stato posto sotto la giusta luce. Sonia, la moglie del protagonista, è quindi volutamente un omaggio alle donne, alla loro determinazione, alla capacità di rispondere sempre presente cercando comunque di porre ai danni creati dall’uomo, e alla capacità femminile di riuscire a farci riflettere, anche su noi stessi e sui nostri limiti".
La ricerca storica del protagonista diventa anche un percorso personale di consapevolezza alla ricerca di un padre scomparso troppo presto?
"Sì. Il protagonista si è affermato nel campo professionale, è felicemente padre di famiglia, ma in fondo all’animo ha un vuoto. Ad ormai cinquant’anni pensava di averlo colmato, ma ben presto si accorgerà che quella ferita interiore non si era mai del tutto rimarginata. Inizierà così a cercare le tracce di quel padre che gli è mancato, trovando prima di ogni altra cosa la forza dentro di sé".
Lei nelle sue conferenze afferma che ci sono ancora molti aspetti della Grande Guerra da esplorare: vuol dire che la sua ricerca storica continuerà?
"Sono un ricercatore storico per passione e per convinzione. La prima motivazione viene dalla mia passione per l’approfondimento degli eventi, per capire il presente partendo dallo studio del passato, mentre la seconda viene dal fatto che la verità storica, spesso, viene scritta dai vincitori o da qualcuno che intende far sapere soltanto la verità ufficiale, di comodo, non quella effettiva dei fatti accaduti. Spero di non dover mai smettere di ricercare la verità in questo senso. Ma soprattutto, ed è quanto sto cercando di portare avanti da tempo col mio contributo personale, spero che le nuove generazioni raccolgano il testimone di noi ricercatori e studiosi della storia e cultura territoriale e portino avanti questo impegno".
Nel finale lei e Dal Molin lanciate un messaggio di pace universale: è una speranza per il futuro?
"È un messaggio di pace non generico, affinché l’uomo non commetta ancora i tragici errori del passato. In quanto tale, la storia ci condanna come esseri ripetitivi. Forse è soltanto un’illusione, ma abbiamo il dovere di continuare a credere in un futuro migliore, soprattutto senza la guerra come risposta ultima alla soluzione delle controversie, al perseguimento d’interessi di parte e come ambizione assurda di una supremazia assoluta dell’uomo sui suoi simili".

(nr. 45 anno XXI del 17 dicembre 2016)