domenica 28 settembre 2008

PAPA GIOVANNI PAOLO I: LA DOLCEZZA CHE SCOSSE IL MONDO

(Da “Il Giornale di Vicenza”, martedì 23 settembre 2008, pag. 7)

Tra le ragioni della grande attenzione riservata verso la figura di Albino Luciani c'è l'esclusivo, e a suo modo rivoluzionario, sistema di comunicazione e trasmissione dei messaggi evangelici. La sua voce flebile, quel fraseggiare confidenziale e tipicamente popolano, se a prima vista potevano apparire propri d'una figura fragile e trasparente, appartenevano invece a un uomo di fede dalla personalità articolata e tenace, impregnata di profonda cultura, animata da una grande spiritualità e permeata di saggezza. La modestia, non solo esteriore, rappresenta una cifra importante del suo carattere: essa pervase la sua intera vita, da prete come da pontefice. Conosciuta l'infanzia tribolata che aveva vissuto, molti si sono chiesti da dove Albino Luciani traesse la forza per il suo schietto e bonario carisma, decisamente allergico al crudo cerimoniale, alieno dalla raffinata arte della diplomazia, libero dai dettami dell'ufficialità più paralizzante, in sintesi quell'austerità che alla fine allontana la gente più umile. Ancor oggi tante persone si chiedono quale intrinseca energia riuscisse ad animare incessantemente le sue parole, a suscitare la stessa autentica emozione che scosse l'animo dei fedeli di tutto il mondo tra l'agosto e il settembre di 30 anni fa. Albino Luciani, esperto catechista, era ben conscio che il messaggio cristiano, se chiaro e ben veicolato, può facilmente ed efficacemente raggiungere l'animo dell'ascoltatore. Egli stesso, quand'era ancora vicario di Belluno, in un capitolo della sua "Catechetica in briciole" aveva scritto: «La chiarezza: poche idee, ma colorite e incisive; meglio poco e bene che tanto e confuso; parole facili, che i fanciulli già conoscono e capiscono, concrete e, se possibile, accompagnate da immagini». Grazie a una prodigiosa memoria fotografica, Luciani risultava un'inesauribile miniera di riflessioni, aneddoti, riferimenti e meditazioni contemplative, ed era chiamato per molti incontri e convegni anche fuori della diocesi di competenza. Sorprendeva sempre gli ascoltatori per l'esposizione tanto semplice quanto profonda, con una elevata capacità di sintetizzare efficacemente gli interventi citando a memoria lunghi brani scritturistici. La sua era una comunicativa mai invadente che disponeva ad un simpatico ed immediato approccio. Stabiliva facilmente rapporti con la gente comune: gli era usuale ricorrere all'aneddoto, instaurando in tal modo più facilmente un dialogo. A Venezia, inizialmente, i suoi collaboratori vissero con disagio i viaggi in vaporetto. Luciani, infatti, cominciava per primo a parlare con chiunque. Interpellava preferibilmente i bambini e le mamme. Alla fine, quando i suoi accompagnatori sentivano di precisare «È il patriarca», queste persone si stupivano felici; ancor più, secondo le testimonianze, egli agiva così durante le visite pastorali, o quando visitava le famiglie, gli anziani e i malati. Luciani sentiva molto l'esigenza sia di curare la comunicativa sul piano pastorale sia di mantenere una costante formazione della propria spiritualità, indicando ciò prima di tutto a sé stesso. Amava molto la letteratura. Era abbonato a numerose riviste internazionali, soprattutto francesi (leggeva in questa lingua con estrema disinvoltura), di spiritualità, patristica, teologia. A Belluno, dove pensava che sarebbe trascorsa tutta la sua vita, aveva donato i suoi libri al Seminario. Divenuto vescovo di Vittorio Veneto, cominciò a ricostruire una biblioteca secondo il suo gusto. A Venezia continuò ad acquistare libri della letteratura conosciuta in giovinezza, che citava nelle omelie o durante i dialoghi con i ragazzi della catechesi. Di questa si trova traccia nei suoi scritti sul "Gazzettino" e sul "Messaggero di S. Antonio": Dickens, Tolstoj, i grandi classici della letteratura mondiale.Il suo stile narrativo preferito appare come un flusso ininterrotto di pensieri e riflessioni intarsiati da molti ricordi personali, un'illustrazione robustamente sostenuta dall'inserimento di episodi esplicativi. Luciani sapeva conferire vigore alle parole: ogni concetto veniva efficacemente esposto con l'accortezza di riferirsi in prima persona all'ascoltatore per lo più dal livello culturale modesto. L'io narrante accompagnava naturalmente i suoi gesti: solo così, attraverso il discorrere sempre dolce e familiare, giungeva come effetto complementare il sorriso con cui egli si conquistò un posto perenne nella memoria popolare. L'immagine di "Papa del sorriso" passata alla storia non deve dunque essere intesa come segno di timidezza, imbarazzo, inadeguatezza, o quale indice esteriore di ingenuità: il sorriso, che gli veniva spontaneo, era "semplicemente" un altro modo di manifestarsi, mostrarsi e restare in mezzo agli altri. Luciani raggiungeva il cuore perchè sapeva emozionare, accarezzare i sentimenti più dolci, le speranze più forti dell'animo umano, il senso di pace, di carità, i pudichi ardori e amori, facendo riscoprire all'ascoltatore il suo mondo interiore con lo stesso stupore dei fanciulli. La semplicità dell'essere, del pensare, dell'agire, del mostrarsi costituisce una concreta testimonianza di quanto la reale semplicità evangelica sia essenza e trasparenza. Quella di Luciani era la vera sapienza del cuore rivolto a Dio e al prossimo. Il suo pontificato, pur brevissimo, fu sufficiente per proporre al mondo il carisma cristiano della semplicità che nasconde una grande forza interiore.

mercoledì 24 settembre 2008

MORIRE PER COSA ?

Ieri sera altre due vite umane sono state sradicate lungo una strada. Una donna e un uomo, Cecilia e Alessandro, due miei amici di gioventù, falciati da una macchina impazzita, sono rimasti a terra. Un ragazzo di 18 anni, il loro investitore, su quell'asfalto viscido non ha lasciato la vita ma la serenità di tutta la sua esistenza. Quando un pezzo della tua giovinezza e del tuo futuro muoiono in questo modo lungo uno strafottuto nastro grigio, quando viene stracciata così anche la storia di una coppia di persone che hanno condiviso, senza cedere, senza arrendersi, senza comunque mai piegarsi, perchè è stato l'Amore a tenerle insieme, innumerevoli momenti di difficoltà e amarezza, nulla di ragionevole può davvero bastare per giustificare a te stesso che tutto questo non ha un senso.
Credo in Dio, in un valore eterno di ciò che siamo e che siamo stati, e per questo un giorno, finalmente incontrandolo, non mi importa se dovrò restare prostrato davanti ad una Luce, se vestiremo entrambi in jeans o in abito da sera, se dovrò rimanere in piedi o se potrò sedermi vicino a Lui sulla panchina di un parco, aprendogli ancora una volta il cuore, Gliene chiederò la Ragione.

domenica 21 settembre 2008

DEDICA A TE CHE MI STAI LEGGENDO

Da quando ho aperto il mio blog personale, a distanza di 11 anni dal mio primo utilizzo di Internet, ho verificato con piacere che la Rete, nella sua pur sempre limitata estensione mondiale e con tutti i comprensibili difetti qualitativi ci cui spesso soffre, permette anche di raggiungere persone lontane con le quali fino a qualche momento prima mai avremmo potuto pensare di condividere qualcosa, e magari di conoscere direttamente le loro idee, il loro modo di sentire le stesse cose.
Ricevo puntualmente accessi da tutta Italia e dall'Estero, e desidero ringraziare di cuore ognuno di voi, anche tu che mi stai leggendo in questo momento, per i commenti e i contributi che ricevo. Adesso sono pienamente convinto che ogni minuto dedicato a custodire ed aggiornare questo blog, come meglio posso e nei miei ritagli di tempo, non è speso invano.
E' domenica e dedico a tutti questa poesia di Nazim Hikhmet. E' un inno alla vita, scritto nel 1948. Di questo grande autore mi colpiscono non soltanto l'estro, l'istinto e l'intuizione artistica, ma il fatto che riesca (non c'è infatti tempo passato per l'animo e il cuore) a scrivere versi meravigliosi in momenti poco felici per il suo animo.

Alla vita (1948)

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro,
ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola.

lunedì 8 settembre 2008

QUANDO NON C’E’ PIU’ L’UOMO

7 Settembre 2008. Ci sono inferni spenti le cui braci continuano a bruciare nel nostro animo. In una domenica di pallido sole sono entrato nel campo di Auschwitz e ho visitato quello gemello di Birkenau. Sono arrivato ad un muro davanti a cui vennero fucilate almeno 70.000 persone, però col fondo rinforzato, altrimenti fuori si sarebbe potuto sentire il rumore degli spari; ho visto i forni crematori, le stanze affumicate e le impronte di chi cercava di grattare il muro per sciogliere il ghiaccio dai sottili passaggi per l’aria consentita a 50 esseri umani; ho visto la cella di Massimiliano Maria Kolbe, canonizzato il 10 ottobre 1981 da Giovanni Paolo II; ho sostato di fronte a cubicoli in cui dopo 10-12 ore di lavori forzati venivamo rinchiuse insieme, senza potersi sedere e praticamente una addosso all’altra, 4-5 persone perché così morissero più rapidamente; mi hanno mostrato la stanza in cui vennero trovate una cinquantina di donne morte quando entrarono i russi il 26 gennaio 1945; ho visto la stanza delle riunioni della Gestapo; le colombaie e i cassoni di legno in cui dovevano dormire ammassati i prigionieri; ho visto montagne di scarpe, occhiali, protesi; osservando la vetrina dietro cui c’erano milioni di capelli mi hanno spiegato che era stato calcolato quanti ne porti mediamente un uomo, per determinare meglio i cicli di raccolta per lo sfruttamento industriale; che in una settimana, al massimo regime, gli aguzzini ricavavano 42 kg di oro dai denti delle vittime: nelle condizioni fisiche in cui versavano ed erano costretti a resistere i prigionieri, i nazisti preventivavano a ciascuno più o meno 3 mesi di vita; mi hanno spiegato che con 8 scatole di gas si uccidevano 2.000 persone e che si cercava di risparmiare anche sulla quantità utilizzata delle camere; ho visto le copie degli appunti e dei rapporti meticolosi dattiloscritti dagli ufficiali che pianificavano al meglio una perfetta macchina di umiliazione, sterminio, annientamento.
Di fianco a me sono scorse le immagini di migliaia di persone con volti che incontriamo anche oggi lungo una qualsiasi strada: c’erano perfino bei visi da attrici ed attori.
Sono salito sulla torre centrale da cui qualcuno controllava con fierezza un regno di lucida follìa; ho visto un militare dal fisico sportivo ed aitante ridere mentre un vecchio, barcollante, si stava trascinando verso la morte perché non poteva lavorare e dunque non serviva più a nessuno; ho visto un'immagine incredibilmente scattata di nascosto, col piccolo apparecchio sotto la veste, di ciò che vedeva una donna che stava per essere gasata e i messaggi scritti e nascosti sotto terra perché qualcuno un giorno sapesse; sono entrato nelle baracche-latrine dove la minima riservatezza non esisteva più, dove non c'era più differenza con le bestie, dove i nazisti pensavano di sfruttare persino i bio-gas prodotti dai prigionieri.
Ho attraversato questi allucinanti non-luoghi, ho ascoltato ancora dell'altro, e non ho nemmeno la forza di descrivere che cosa ho provato, perché non esistono parole adatte, ma solo il silenzio, per tentare di esprimere il peso d’angoscia che mi è sceso dentro, ma so che non potrò dimenticarmi, perché non lo voglio, il terrore negli occhi di un bambino, uno per tutti, paffutello ma bellissimo, mentre gli scattavano le foto identificative perché avevano calcolato che, dopo due settimane, a causa degli stenti, i suoi lineamenti, come per quelli di tutti gli altri condannati a morire, sarebbero stati irriconoscibili, e ho scelto di ricordarmi per sempre di lui. Non ho fatto in tempo a leggere il tuo nome, piccolo, ma non temere, tu non sparirai, come tutti gli altri cuccioli impauriti che si tenevano per mano mentre andavano alle docce.
I carcerieri erano gli stessi che davanti a Padre Kolbe disposto a sacrificarsi al posto di un padre di famiglia non sapevano come reagire: impietosi davanti a gente che voleva vivere, impreparati davanti a persone che sceglievano di morire.
Mi sono tornate in mente le ultime parole di un partigiano italiano davanti al plotone d’esecuzione: “Voi mi uccidete, ma siete voi ad avere paura”. Perché i disperati erano loro, i carcerieri.

lunedì 1 settembre 2008

UNO DEI MILLE DI GIUSEPPE GARIBALDI

Per studiare il rapporto tra Giuseppe Garibaldi e Vicenza, e per capire meglio anche la figura dell’Eroe dei Due Mondi, bisogna considerare la vita di un uomo di nome Domenico Cariolato. Tra gli eroi del Risorgimento italiano e vicentino va infatti ricordato questo patriota nato in una delle tante generose città da dove partirono i Mille della famosa Spedizione (furono ufficialmente 34 i garibaldini vicentini che vi parteciparono).
La storia di Domenico Cariolato (1835-1910), anche senza particolari effetti speciali, rappresenta la base per un ottimo copione da film fin dalle prime scene. Nato a Vicenza, nelle fatidiche giornate del giugno 1848, appena tredicenne, Cariolato si distinse già nella difesa della città berica dalle truppe austriache del Maresciallo Radetzky.
Grazie alle gesta compiute nella difesa di Roma dall’assalto dei Francesi, l’anno seguente egli si vide riconosciuta una daga d’onore.
Dopo aver militato nel battaglione vicentino formato da volontari che seguirono con entusiasmo il Generale, Cariolato vestì la camicia rossa dei garibaldini nella leggendaria spedizione dei Mille (si distinse con particolar merito a Calatafimi) e da quel momento fu tra coloro che seguirono sempre da vicino le gesta di Garibaldi, divenendone nel tempo uomo di fiducia.
Combattente dai riconosciuti valore ed esperienza (fu peraltro tra i Cacciatori delle Alpi) Domenico Cariolato fu praticamente presente in tutte le più importanti battaglie del Risorgimento italiano, combattendo con onore anche a Bezzecca nel 1866.
Dal carteggio Cariolato-Garibaldi giunto fino a noi si evince che il colonnello vicentino intrattenne con il Generale nizzardo un solido rapporto personale anche negli anni della decadenza e della vecchiaia dell’uomo che fu il suo punto di riferimento di una intera carriera militare.
Queste sono soltanto alcune notizie della vita di Domenico Cariolato, patriota per lungo tempo dimenticato ed un uomo la cui vita rimane ancor oggi da riscoprire.

Saverio Mirijello (e-mail:
savemir@tin.it)

AMORE IMPOSSIBILE

E’ stato il vento dell’estate, non io, a scrivere su questo foglio. Il vento, così forte e veloce, che sa cambiare anche le prospettive palladiane, che ci spettina i pensieri, che riporta indietro i ricordi e ci spinge in avanti verso sogni di leggerezza infinita, impossibile. E’ stato il vento di questa folle e magnifica stagione a guidare la mia mano, facendo fare capriole e mulinelli alle mie poche e fragili certezze. Non ero io a scrivere di te su questa pagina candida, di tutto ciò che vorrei dirti, delle cose che posso soltanto ricordare. E’ stato il vento, insolente e imperioso, vento sul viso, tra gli alberi, vento tra i capelli, vento che ci fa chiudere gli occhi, che ci spezza gli ombrelli, che porta l'odore del mare fino a qui. Non è mia la colpa o il merito, non è me che devi biasimare o ringraziare per le parole scritte oggi su questa pagina bianca, ma il vento dell’estate che è entrato nella mia casa senza chiedere alcun permesso, sbattendo la porta, facendo volare ogni cosa, fuori e dentro.