venerdì 31 luglio 2009

TRA STORIA E RICORDI: L'ELMETTO ADRIAN, ICONA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE


di Saverio Mirijello


Un oggetto in sé non ha nulla di male: è il suo utilizzo a renderlo strumento apportatore di beneficio, di benessere oppure di sventura e sofferenza. Ogni oggetto, pur apparentemente semplice e nella sua fredda immobilità, può dunque esprimere, nel bene e nel male, la rappresentazione di un’epoca. E a volte ciò accade in un modo tanto intenso e diffuso da rendere quello stesso oggetto profondamente emblematico e significativo. Come l’elmetto Adrian, l’icona più rappresentativa della Grande Guerra, l’inseparabile compagno del soldato delle grandi battaglie combattute sul suolo veneto, europeo e mondiale, nel primo grande conflitto che scosse l’umanità. La storia di questo copricapo parte da un’idea concepita dall’ufficiale Louis Auguste Adrian chiamato, nel 1914, a risolvere in tempi rapidi i seri problemi di equipaggiamento delle truppe francesi, e che riuscì ad escogitare una delle protezioni belliche più diffuse della storia moderna.
La concezione ed estetica dell’Adrian rappresentarono il momento di transito da una guerra antica ad una moderna: per via delle ridotte dimensioni, per il profilo, per la sua leggerezza e semplicità concettuale, non a caso l’elmetto francese assomiglia molto anche agli elmi semplici ed essenziali dei soldati più antichi. Si stima in generale che la produzione complessiva dell’elmetto Adrian si aggiri intorno a circa 20 milioni di esemplari, distribuiti in vari periodi e in numerosi Paesi. E’ una stima comunque approssimativa, dato che molti eserciti usarono l’elmetto francese.
Prima della rapida diffusione dell’Adrian tra le truppe, si andava in guerra con dei caschi improbabili, spesso meramente rappresentativi, se non addirittura d’ingombro; già appena dopo l’inizio del suo impiego, seppur non del tutto risolutivo per la salvaguardia del capo (risultava infatti pericolosamente fragile ai colpi diretti sul fianco), esso rappresentò l’inizio di una profonda rivoluzione nella dotazione difensiva, e venne presto adottato per essere impiegato per lungo tempo anche dopo la Prima Guerra Mondiale, dagli eserciti di una ventina di nazioni.
Le stesse forze armate italiane continuarono ad adottare il copricapo della Grande Guerra come elmetto d’ordinanza per tutti gli anni ’20 e per parte degli anni ’30.Per disegno e materiali, l’intuizione dell’ufficiale Adrian rappresentò un nuovo modo di concepire la guerra, tenendo in considerazione la sopravvivenza dei soldati.
L’Adrian divenne l’immagine stessa del fante, dell’uomo esposto all’imperversare degli eventi bellici, ed ancor oggi evoca, andando ben oltre l’apparente freddezza del metallo, vicende umane tanto minime quanto grandiose di un grande conflitto.
Se l’elmetto tedesco, studiato da un chirurgo, August Bier, e contemporaneo del copricapo transalpino, ha lasciato in particolar modo un’impronta indelebile nella successiva storia dell’elmetto militare, l’Adrian fu l’elmetto più diffuso durante il conflitto ed indossato invariabilmente da soldati e generali.
L’Adrian è forse divenuto il simbolo della I Guerra Mondiale perché, non avendo lasciato eredità tecnico-militari di particolare rilievo, la sua immagine è inevitabilmente rimasta legata al primo grande conflitto mondiale.
Del resto, fatte alcune eccezioni, il casco metallico francese rimase nella sua struttura di base assolutamente immutato, e questo contribuì senz’altro a renderlo un’icona certa e immutabile della Grande Guerra.
Di un copricapo ci può essere molto da scoprire. Un elmetto, anche nel suo attuale stato di conservazione, ci racconta infatti sempre qualcosa della sorte di chi lo ha utilizzato. Così, se un esemplare sostanzialmente integro ci fa pensare bene circa la sorte del soldato che lo indossò, altrettanto inconsciamente un elmetto forato da una pallottola o lacerato da una scheggia, come se ne trovano ancora negli scavi nei luoghi veneti che furono interessati dalle battaglie, ci riconduce ad una tragedia in battaglia e alla storia d’un uomo con la pagina finale barbaramente strappata.


(Da "Veneti nel Mondo", agosto 2009)

giovedì 23 luglio 2009

FALLIRE NON E' MORIRE PER SEMPRE

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”.“Harry, rivisto” di Mark Sarvas, è uno dei migliori testi da leggere nel 2009. Storia dolorosa ai limiti del sadismo, comica ai limiti della tragedia e salvifica, per quanto possibile, d'un eroe del fallimento moderno, in edizione zippata. Se potete, non perdetevelo.

sabato 11 luglio 2009

sabato 4 luglio 2009

LA STORIA SENZA TESTIMONI NON ESISTE

"...E' un aspetto, questo, dello strano mestiere di cronista che non cessa di affascinarmi e al tempo stesso di inquietarmi: i fatti non registrati non esistono. Quanti massacri, quanti terremoti avvengono nel mondo, quante navi affondano, quanti vulcani esplodono e quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa! Eppure se non c'è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro è come se questi fatti non fossero mai avvenuti! Sofferenze senza conseguenze, senza storia. Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta. E' una triste constatazione; ma è così ed è forse proprio questa idea - l'idea che con ogni piccola descrizione di una cosa vista si può lasciare un seme nel terreno della memoria - a legarmi alla mia professione..." (Tratto da: "Un indovino mi disse" di Tiziano Terzani)

venerdì 3 luglio 2009

ONESTA' E CORAGGIO CHE VENGONO DA LONTANO

1) Ha trovato per strada il portafoglio perso da un dirigente calcistico con 15mila euro fra contanti e assegni e, da vera persona onesta, lo ha consegnato alla polizia. Protagonista del gesto, avvenuto a Trento, un marocchino disoccupato. Abdessamad Nesmy, 39 anni - racconta il quotidiano "L'Adige" - non trovando alcun numero telefonico all'interno del portafoglio si è recato subito in questura. Qui gli agenti sono riusciti a risalire al proprietario, Claudio Tonetti, vicepresidente del Mezzocorona Calcio. Ormai rassegnato alla perdita del portafoglio, di cui aveva denunciato la scomparsa, l'uomo ha così potuto riottenere la somma e lasciare la giusta ricompensa al marocchino. "I soldi piacciono a tutti - dice Nesmy - ma io non prenderei mai nulla che non sia mio". E aggiunge: "Da febbraio sono disoccupato, per la crisi ho perso il lavoro come magazziniere, ma quei soldi non li avrei mai tenuti";
2) Il Principe degli Angeli di una notte di fiamme veniva dall’altra parte del mare. Si chiamava Hamza e aveva 16 anni, frequentava un istituto tecnico di qui e andava pazzo per il pallone, come i nostri ragazzi, come gli amici che aveva lasciato in Marocco. Il destino ha voluto inchiodarlo a un disastro, quello alla stazione ferroviaria di Viareggio (Lucca), e si sa che i disastri richiedono eroi. Per questo Hamza, quando lingue di fuoco alte fino a quaranta metri hanno avvolto la sua casa dall’altra parte della stazione, dalla parte povera di una Viareggio che pure sul mare fa risplendere tutto il suo liberty, ha cominciato a perlustrare le stanze a una a una come una furia, in cerca della sorellina di due anni. Non hanno potuto fermarlo. Ha trovato la bambina, Hamza, e l’ha issata sulle sue braccia forti di adolescente fino a scaraventarla dolcemente fuori della casa, fuori pericolo, terrorizzata ma viva come il cuore forte del ragazzo aveva voluto. In quella casa c’è rimasto lui, povero Angelo, prima svenuto, poi asfissiato e infine miseramente carbonizzato. Irriconoscibile si sarebbe detto, se solo la disperazione della sorella più grande - vent’anni e pure anche lei così forte e decisa - non l’avesse strappato a una misera sepoltura riconoscendo i resti della collanina che Hamza portava sempre al collo. Tutto questo è accaduto in un pomeriggio appiccicoso di fine giugno all’ospedale di Pietrasanta, con un crocchio di altri marocchini fuori che raccontavano e piangevano Hamza e le sue gesta. Una comunità unita, discretamente integrata, che adesso ha trovato il suo martire e vuole pur dirlo al resto del mondo.