domenica 30 novembre 2008

UNA SERA A COLONIA

Che cosa posso insegnarti io ? Pochissimo, al massimo raccontarti qualcosa che credo possa aiutarti. Tipo: c’è Keith Jarrett al piano, da solo, a Colonia, è una sera del 1975, è il 24 gennaio del 1975. Keith Jarrett sale sul palco, è reduce da due notti insonni, non si regge in piedi. Ha espressamente richiesto un pianoforte che non è arrivato. Quello in dotazione nel teatro gli è parso inadatto, insoddisfacente, l'ha provato, si è alzato e ha annunciato che il concerto è annullato. Poi, all'ultimo, cambia idea. I tecnici del suono decidono solo in extremis di mettere i microfoni per registrare la musica per gli archivi, per dovere di cronaca. Alle prime note qualcuno ride, tanto è fuori registro. Poi è silenzio. Segue un capolavoro dell'improvvisazione. Un amico di Jarrett spiegò così quel che accadde: "Probabilmente suonò in quel modo perché non aveva un buon pianoforte. Dato che non poteva innamorarsene, cercò un altro modo di tirarne fuori il meglio".
Non sai mai quando stai per dare il meglio di te, certo non sarà quando sei preparato per farlo. Né sai quando otterrai da qualcuno o qualcosa il meglio. Certo non sarà qualcuno o qualcosa che ti si presenta alla perfezione, senza un problema. Sarai solo sul palco e non avrai una seconda possibilità. E, il più delle volte, non ne tirerai fuori niente. Una volta, però, tutto potrà risultare indimenticabile.
(Un ringraziamento personale a Gabriele Romagnoli)

domenica 23 novembre 2008

MORIRE DI SCUOLA NEL 2008

Muoiono fisicamente coloro che si tolgono la vita per la vergogna di una bocciatura o per l'insostenibile fardello di un nomignolo che brucia come un marchio infamante. L’ultima vittima si chiamava Vito Scafidi: allievo della IV G del liceo Darwin di Rivoli (Torino), è rimasto ucciso dal crollo del soffitto della sua aula. Una "tragedia inspiegabile", come ha dichiarato il ministro Gelmini? Le cause ce le potranno spiegare soltanto i tecnici, ma di certo nel nostro Paese 60 edifici scolastici su 100 risultano fuori norma. E di certo, nella bufera delle constestazioni che ha investito la nuova riforma, si è parlato di ogni cosa fuorché dell'incolumità fisica degli studenti italiani. Alla luce di quanto è avvenuto ieri a Torino, tutto ha il sapore amaro di una tragica ironia: nei prossimi giorni in Italia si celebrerà la VI Giornata nazionale della Sicurezza nelle Scuole, quasi certamente con la presenza di autorità politiche e amministrative locali, le stesse che da anni assicurano interventi, naturalmente mai eseguiti. "Sicurezza" si fa per dire, perché in quasi tutta Italia aule e palestre sono fatiscenti, gli edifici spesso traballanti, sporchi e inadeguati. Il 75% di essi risulta “a rischio” perché non sono a norma, mentre gli incidenti a professori e studenti sono in costante crescita: nel 2007, secondo l’Inail, 12.912 al personale e 90.478 a danno degli alunni. I fondi per adeguare le strutture, ovviamente, sono sempre scarsi, e magari "ci sono altre priorità". Insomma, è un atto di coraggio mandare i figli a scuola. La gravità della situazione era stata denunciata per l’ennesima volta lo scorso settembre da Cittadinanzattiva, che presentò il VI Rapporto annuale su sicurezza, qualità e comfort degli edifici scolastici, dopo aver esaminato 132 scuole di ogni ordine e grado, dislocate in 12 regioni e frequentate da 41.269 studenti. Risultato? Due edifici scolastici su tre sono “appena sufficienti” o “pessimi”. L’istantanea scattata fa rabbrividire: 4 istituti su 10 sono senza palestra; le aule, alle quali spetta il titolo di “ambiente più sporco”, presentano crolli di intonaco in un caso su 5 e altri segni di degrado nel 29% dei casi; il 50% ha un impianto elettrico risalente agli anni Quaranta e nessuna norma antincendio; il 42% non ha porte antipanico; il 20% ha pavimenti sconnessi; il 24% ha finestre rotte; il 29% ha attrezzature sportive danneggiate, ma c’è pure un 9% che non ne possiede nemmeno una. Il campionario dei casi “al limite” è lunghissimo. Esistono cantine umide per fare ginnastica, aule riscaldate con stufe elettriche (alla bella faccia del risparmio energetico), termosifoni che cadono, aule poste sotto il livello stradale, infiltrazioni d’acqua, tubi e fili elettrici a vista, pavimenti e sanitari vecchi e rotti, ascensori non collaudati. Il 75% degli istituti scolastici in Italia non è sicuro, per questo serve una loro revisione immediata, per individuare quelle a rischio ed evitare altre tragedie. Impegnatevi, cari signori politici italiani, affinché i risparmi derivanti dal progetto di riforma della scuola e dal piano di razionalizzazione degli edifici scolastici siano reinvestiti e destinati esclusivamente alla messa in sicurezza dell'edilizia scolastica. Ripartiamo da lì, dalla sicurezza di ciò che già è presente. Nella giornata di oggi, i telegiornali parleranno più volte del tragico crollo: assisteremo alle solite accuse, alle solite statistiche, alla solita sfilata di opinionisti. Io non riesco, scusatemi, ad esprimere un onorevole parere. Penso soltanto alla vita spezzata di questo adolescente e della sua famiglia e mi chiedo che senso avrà continuare a discutere sulla cosiddetta riforma di una scuola che andrebbe ricostruita, non solo metaforicamente, dalle sua fondamenta e sulla quale una società civile dovrebbe fare i massimi investimenti. Sarà difficile, e spero lo rimanga anche per tutti coloro che ci governano, dimenticare Vito Scafidi, 17 anni, un ragazzo che come tanti suoi coetanei amava la vita, divenuto tristemente l'emblema di una scuola italiana che nel 2008, nelle condizioni vergognose in cui si trova, ha finito con l'ucciderlo.

lunedì 17 novembre 2008

RICORDO DI ARMANDO GERVASONI (1933-1968)


Armando Gervasoni
Quarant’anni fa, il 17 novembre 1968, Armando Gervasoni, giovane giornalista vicentino di talento, muore a soli 35 anni in un incidente stradale. Insieme al libro di Tina Merlin, il suo testo “I corvi di Erto e Casso” rimane un testo fondamentale per comprendere la tragedia del Vajont.
Negli anni ’50 collaboratore de “Il Mondo” di Pannunzio, agli inizi degli anni ’60, da professionista, entra nella redazione bellunese de “Il Gazzettino”. Ha l’occasione di conoscere Tina Merlin, la coraggiosa cronista de “L’Unità” che segue sin dall’inizio i lavori della costruzione della diga del Vajont da parte della Sade, e può conoscere ed approfondire molte questioni legate alla diga e alla vita degli abitanti della zona. Tutto ciò di cui viene a conoscenza viene riversato in un romanzo: tra il gennaio e il settembre del 1963, infatti, egli scrive un libro pieno d’angoscia cui darà il titolo de “I corvi di Erto e Casso”, testo quasi profetico in cui Gervasoni prefigura il disastro che sta per succedere. E’ una tragedia preannunciata, dovuta a precise e ben riconducibili responsabilità, che si scatenerà in seguito alla costruzione di una maledetta diga a fianco d’una montagna soggetta a frane e quindi completamente inaffidabile quale punto di ancoraggio della nuova opera.
Il libro del giornalista vicentino, prima del disastro, conosce varie tappe forzate che ne impediscono la pubblicazione. Nella funesta notte del 9 ottobre, quando giunge la notizia della strage del Vajont, Gervasoni non si trova più a Belluno: nei primi mesi del 1963 è stato spostato alla redazione di Rovigo de “Il Gazzettino”. L’ordine era partito dall’alto. Dal centro rodigino Gervasoni ritorna però nel Vajont, stavolta come inviato. Racconterà la disgrazia di quanto è costretto a rivedere dopo averlo purtroppo inutilmente preannunciato. Il suo libro verrà stampato nel 1967 per i tipi dell’editore Giordano di Milano, adattato stavolta alla realtà cui Gervasoni si era inizialmente ispirato con un taglio più letterario. Postumo, vedrà la luce nel 1969 anche il suo ultimo lavoro, dal titolo “Il Vajont e le responsabilità dei manager”, edito da Bramante, Milano.

La scomparsa di questo giovane uomo, padre di famiglia, scrupoloso e valente giornalista vicentino, lascerà un vuoto incolmabile.

domenica 9 novembre 2008

DIFFERENTI VISUALI




mercoledì 5 novembre 2008

L'AMERICA E LA FORZA DI CHI NON SMETTE DI SOGNARE

Il fenomeno Obama ha travalicato l’America e l’onda emotiva, dopo la sua elezione (quale 44.mo presidente degli USA) si sta allargando a tutto il mondo globalizzato, Cina ed Iran compresi. Se l’entusiamo giova, l’esaltazione però nuoce alla politica e c’è il rischio che speranze e attese vengano presto deluse e frustrate. Obama (47 anni) viene infatti spesso definito come un altro Kennedy (che ne aveva 44 anni al momento dell’elezione): il mito di JFK è ancora vivo, anche se più in Europa che in America, ma oggi sappiamo che il vero artefice della legislazione sui diritti civili, e di un welfare americano destinato ad essere smantellato dalle amministrazioni repubblicane nei 30 anni successivi, fu Lyndon Johnson, a suo tempo uno dei presidenti più impopolari. Obama ha dimostrato grande intelligenza e grande abilità nell’organizzare e condurre una campagna elettorale quasi senza errori mentre sia Hillary Clinton che John McCain, i suoi maggiori avversari, ne hanno fatti diversi. È circondato da uno stuolo di consiglieri di grande livello, economisti, diplomatici, sociologi, il meglio insomma che oggi possa offrire l’America. Ciò che consiglia cautela è piuttosto la situazione obiettiva che Obama erediterà, caratterizzata da una crisi di cui resta ancora da capire il percorso, di scegliere i mezzi per farvi fronte a cui il Paese arriva dopo anni difficili con risorse limitate da una politica demogogica di tagli fiscali indiscrimati, dai costi altissimi di una guerra ancora aperta con una moneta inflazionata che non potrà più occupare la posizione dominante che ha mantenuto per più di mezzo secolo. Ha mandato in soffitta, al termine dell’era di Bush, la visione unilaterale e muscolare dei rapporti internazionali, le teorie neo-con, della democrazia esportata sulla punta del fucile. Ha riscoperto lo statalismo keynesiano, dopo la lunga parentesi del liberismo sfrenato, della finanza allegra e selvaggia, incubatrice delle attuali sventure. Ma ha soprattutto rotto gli argini del conformismo e delle convenzioni, degli assetti costituiti del potere, testardamente maschile, rigorosamente bianco. Sul palcoscenico delle primarie e poi della maratona presidenziale hanno fatto il loro ingresso e lasciato il segno Hillary Clinton, a lungo considerata la prima potenziale presidentessa della superpotenza Usa. Poi Sarah Palin, con la sua carica comunque carismatica di paladina dei valori ipercristiani, del ventre conservatore del paese, di un diverso modo di essere donna e femminista.Ed infine lui, il fenomeno Obama, primo nero della storia Usa a conquistare la leadership di uno dei due grandi partiti statunitensi; a sconfiggere la formidabile macchina da guerra di Hillary nella primarie. Ed a puntare, lui, figlio ed erede di 300 anni di sofferenza ed umiliazione della gente nera, alla conquista della Casa Bianca. Un’impresa condotta con grande intelligenza, freddezza, lungimiranza e disciplina, pregio quest’ultimo tradizionalmente alieno alla macchina politico-elettorale del partito democratico. Una battaglia combattuta con un avversario tenace ed esperto come McCain. Anch’egli simbolo, nonostante l’età avanzata e la lunga militanza a Washington, dell’urgenza di cambiare strada dopo otto lunghi anni di regno busciano. “Change!”, invocavano a gran voce ieri decine di milioni di americani per ora in fila davanti ai seggi. E cambiamento, in ogni caso, hanno avuto. Perchè la grande forza dell'America sta nella sua irrefrenabile voglia di continuare a sognare.