sabato 7 ottobre 2017

Recensione del libro "LA CALDAIA DELLE STREGHE" a cura di Nicoletta Martelletto (Il Giornale di Vicenza)

Nascita di un cecchino tra gli orrori della guerra 

Appassionante è la vicenda del sergente vicentino Bicchi che viene scelto in fanteria per diventare tiratore e chiudere col passato

Cosa passa per la testa di un tiratore di precisione? Cosa pensa quando preme il grilletto? E quanto è lungo e tormentato l'avvicinamento all'obiettivo prescelto? Ce lo hanno raccontato oggi film come "American Sniper" o "Il nemico alle porte" e ancora con più crudeltà le dirette Tv da Sarajevo, quando durante la guerra di Bosnia sul viale dei cecchini sono caduti in centinaia. Ma mancava ancora, nella fioritura di testi per il 100° della Grande Guerra, qualcuno che scrivesse di chi, nelle file del nostro esercito, aveva ricoperto questo ruolo già ampiamente praticato sul fronte austriaco. Cecchino era il soldato austro-ungarico dell'imperatore Cecco Beppe, che non aveva pietà, un tiratore da temere e da tenere lontano. Un nome dispregiativo. Col romanzo "La caldaia delle streghe", 214 pagine per Attilio Fraccaro editore, l'appassionato ricercatore storico Saverio Mirijello colma questo vuoto. Il tiratore scelto di cui narrare la storia è il sott'ufficiale Luigi Bicchi, vicentino, fante nella IV compagnia del 129esimo. Un nome di fantasia, un trascorso tra Monte Zebio, Carso e un presente sul Pasubio, giusto sui bordi di quella "caldiera delle streghe", così chiamata da un militare austriaco reduce da bufere di neve e arsure insopportabili. Bicchi è un bravo soldato, con qualche ombra disciplinare, che viene convocato all'improvviso nelle retrovie per divenire tiratore. Spara da quando è ragazzino, a 10 anni va a caccia col padre e lo zio, assimila presto la pazienza dell'appostamento e la freddezza dell'esecuzione. Ma poi da giovane, chiamato alle armi, come tanti coetanei si chiede il perchè del conflitto: «Molti compreso il sottoscritto, disconoscevano le effettive ragioni, non era certo motivante nè corroborava lo spirito. Del pugno di ferro imposto da Cadorna, e di tutto quell'enorme catafalco politico e militare che lo sorreggeva, continuavo sinceramente a infischiarmene». Ma Luigi combatte, perchè serve il Re e la sua Patria. E soprattutto deve coprire chi va all'assalto. Quando fallisce e muoiono i compagni più vicini, il tormento lo divora. Viene ferito gravemente, è soccorso dai suoi che non lo abbandonano ma quando viene spedito in licenza a casa dai genitori, non riesce a consumarla tutta, perchè l'estraniamento è tale che il fronte di nuovo lo chiama. Eseguirà fino in fondo il suo dovere su uno scenario di armamenti puntigliosamente descritto da Mirijello, con una competenza che gli vale i complimenti di Federico Prizzi, polemologo e storico militare, autore della incisiva prefazione. Ogni trasferimento ed ogni missione di Luigi Bicchi è in realtà un pretesto per aprire parentesi sugli aspetti più duri della vita di trincea, dalla mancanza d'acqua - ci sono pagine di assoluta emozione - all'impossibilità di comunicare con l'esterno, dalla guerra ai pidocchi alla legge marziale che interviene quando i soldati familiarizzano col nemico. E' carcere per chi lancia un pezzo di pane e ne riceve in cambio un pacchetto di sigarette. E' carcere per chi risponde all'austriaco che grida "come stai?". Anche un "Buon Natale" equivale al reato di "agevolazione al nemico". Tutto questo narra Mirijello, insieme alle lezioni di balistica e alla favola di un amore vicentino per Luigi, la commessa Anna che lo attende in città, ogni volta che sbuca in divisa tra ondate di vapore e si fa travolgere da un abbraccio in stazione. Dopo un inverno tremendo sul Pasubio, costruita la Strada delle Gallerie, inizia la guerra sotterranea tra i Denti. Ancora morte e distruzione, per lui altri sei mesi sul fronte del Carso fino al congedo e alle medaglie al valore. «Non mi interessava essere considerato un eroe: speravo solo che mia figlia ricordasse quanto a più lungo possibile il fatto che suo padre e sua madre si erano battuti per qualcosa di migliore e di più grande» è la chiusa di Bicchi, che affida il diario ai posteri e alle montagne, finalmente mansuete.

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