martedì 30 dicembre 2008
UNA STELLA E UN DESIDERIO
venerdì 26 dicembre 2008
LA CULTURA NON E' UN LUSSO
giovedì 25 dicembre 2008
MADRE
Le cadde dalle ginocchia come un gomitolo di lana.
Si sdipanava in fretta e fuggiva alla cieca.
Lei reggeva l’inizio della vita. Lo girava intorno all’anulare
come un anello voleva proteggerlo.
Lui si srotolava per scoscesi pendii talvolta
si arrampicava verso l’alto. Arrivava aggrovigliato
e taceva.
Mai più farà ritorno sul dolce trono delle sue
ginocchia.
Le mani protese risplendono nel buio come
una città antica.
Zbigniew Herbert, poeta polacco (1924-1998)
IL NATALE NON HA COLPA
Non è colpa del Natale: dobbiamo continuare a pensare che ciascuno resta sempre uguale a sé stesso, che la strada che ci immaginiamo è riservata soltanto a ognuno di noi, e che per percorrerla dobbiamo continuare a credere anche nei sogni che sfumano ogni giorno.
mercoledì 17 dicembre 2008
IDEA PER UN REGALO DI NATALE
domenica 30 novembre 2008
UNA SERA A COLONIA
domenica 23 novembre 2008
MORIRE DI SCUOLA NEL 2008
lunedì 17 novembre 2008
RICORDO DI ARMANDO GERVASONI (1933-1968)
Armando Gervasoni |
Negli anni ’50 collaboratore de “Il Mondo” di Pannunzio, agli inizi degli anni ’60, da professionista, entra nella redazione bellunese de “Il Gazzettino”. Ha l’occasione di conoscere Tina Merlin, la coraggiosa cronista de “L’Unità” che segue sin dall’inizio i lavori della costruzione della diga del Vajont da parte della Sade, e può conoscere ed approfondire molte questioni legate alla diga e alla vita degli abitanti della zona. Tutto ciò di cui viene a conoscenza viene riversato in un romanzo: tra il gennaio e il settembre del 1963, infatti, egli scrive un libro pieno d’angoscia cui darà il titolo de “I corvi di Erto e Casso”, testo quasi profetico in cui Gervasoni prefigura il disastro che sta per succedere. E’ una tragedia preannunciata, dovuta a precise e ben riconducibili responsabilità, che si scatenerà in seguito alla costruzione di una maledetta diga a fianco d’una montagna soggetta a frane e quindi completamente inaffidabile quale punto di ancoraggio della nuova opera.
Il libro del giornalista vicentino, prima del disastro, conosce varie tappe forzate che ne impediscono la pubblicazione. Nella funesta notte del 9 ottobre, quando giunge la notizia della strage del Vajont, Gervasoni non si trova più a Belluno: nei primi mesi del 1963 è stato spostato alla redazione di Rovigo de “Il Gazzettino”. L’ordine era partito dall’alto. Dal centro rodigino Gervasoni ritorna però nel Vajont, stavolta come inviato. Racconterà la disgrazia di quanto è costretto a rivedere dopo averlo purtroppo inutilmente preannunciato. Il suo libro verrà stampato nel 1967 per i tipi dell’editore Giordano di Milano, adattato stavolta alla realtà cui Gervasoni si era inizialmente ispirato con un taglio più letterario. Postumo, vedrà la luce nel 1969 anche il suo ultimo lavoro, dal titolo “Il Vajont e le responsabilità dei manager”, edito da Bramante, Milano.
La scomparsa di questo giovane uomo, padre di famiglia, scrupoloso e valente giornalista vicentino, lascerà un vuoto incolmabile.
domenica 9 novembre 2008
mercoledì 5 novembre 2008
L'AMERICA E LA FORZA DI CHI NON SMETTE DI SOGNARE
giovedì 30 ottobre 2008
sabato 18 ottobre 2008
PER OGNI SUCCESSO C'E' SEMPRE UN FALLIMENTO
mercoledì 15 ottobre 2008
domenica 5 ottobre 2008
QUANDO LA DEMOCRAZIA E' AZZOPPATA
venerdì 3 ottobre 2008
STRAGI SOTTO TRACCIA
Si tratta di una barbarie che non possiamo più trascurare. Ma come prevenire queste tragedie domestiche? Tanto per cominciare, secondo gli operatori sociali e legali più esperti, bisognerebbe provvedere al potenziamento dei servizi sociali di assistenza, e forse, anche ad istituire uno specifico corpo di polizia specializzato nei reati intrafamiliari, creando così una corsia preferenziale per le denunce di maltrattamenti in famiglia. Non si possono seguire i tempi delle altre indagini, se non c’è un intervento immediato, in questi casi si corre il rischio di arrivare troppo tardi: statisticamente il 50% delle stragi è solitamente una tragedia annunciata perchè preceduta da denunce e referti medici.
Quale ultimo aspetto, ma non certo per importanza, ci vorrebbe inoltre maggior celerità nelle cause di separazione. In questi casi e nei divorzi altamente conflittuali, quando ci sono dei sospetti di maltrattamento, i mariti dovrebbero essere subito allontanati da casa. E se una delle parti ha depositato copie di referti medici o di denunce penali l’udienza dovrebbe essere fissata dopo qualche giorno, al massimo entro 7 giorni, sostengono sempre gli operatori sociali e legali più esperti. Non è infatti possibile, in questi casi, seguire la trafila tradizionale. In una separazione giudiziale su 3 vengono allegati agli atti copie di referti medici e denunce. Insomma, basta con le troppe parole, bisogna finalmente provvedere: la violenza tra le mura domestiche è un dramma che non può essere più sottovalutato dalle forze politiche e dalla magistratura.
domenica 28 settembre 2008
PAPA GIOVANNI PAOLO I: LA DOLCEZZA CHE SCOSSE IL MONDO
Tra le ragioni della grande attenzione riservata verso la figura di Albino Luciani c'è l'esclusivo, e a suo modo rivoluzionario, sistema di comunicazione e trasmissione dei messaggi evangelici. La sua voce flebile, quel fraseggiare confidenziale e tipicamente popolano, se a prima vista potevano apparire propri d'una figura fragile e trasparente, appartenevano invece a un uomo di fede dalla personalità articolata e tenace, impregnata di profonda cultura, animata da una grande spiritualità e permeata di saggezza. La modestia, non solo esteriore, rappresenta una cifra importante del suo carattere: essa pervase la sua intera vita, da prete come da pontefice. Conosciuta l'infanzia tribolata che aveva vissuto, molti si sono chiesti da dove Albino Luciani traesse la forza per il suo schietto e bonario carisma, decisamente allergico al crudo cerimoniale, alieno dalla raffinata arte della diplomazia, libero dai dettami dell'ufficialità più paralizzante, in sintesi quell'austerità che alla fine allontana la gente più umile. Ancor oggi tante persone si chiedono quale intrinseca energia riuscisse ad animare incessantemente le sue parole, a suscitare la stessa autentica emozione che scosse l'animo dei fedeli di tutto il mondo tra l'agosto e il settembre di 30 anni fa. Albino Luciani, esperto catechista, era ben conscio che il messaggio cristiano, se chiaro e ben veicolato, può facilmente ed efficacemente raggiungere l'animo dell'ascoltatore. Egli stesso, quand'era ancora vicario di Belluno, in un capitolo della sua "Catechetica in briciole" aveva scritto: «La chiarezza: poche idee, ma colorite e incisive; meglio poco e bene che tanto e confuso; parole facili, che i fanciulli già conoscono e capiscono, concrete e, se possibile, accompagnate da immagini». Grazie a una prodigiosa memoria fotografica, Luciani risultava un'inesauribile miniera di riflessioni, aneddoti, riferimenti e meditazioni contemplative, ed era chiamato per molti incontri e convegni anche fuori della diocesi di competenza. Sorprendeva sempre gli ascoltatori per l'esposizione tanto semplice quanto profonda, con una elevata capacità di sintetizzare efficacemente gli interventi citando a memoria lunghi brani scritturistici. La sua era una comunicativa mai invadente che disponeva ad un simpatico ed immediato approccio. Stabiliva facilmente rapporti con la gente comune: gli era usuale ricorrere all'aneddoto, instaurando in tal modo più facilmente un dialogo. A Venezia, inizialmente, i suoi collaboratori vissero con disagio i viaggi in vaporetto. Luciani, infatti, cominciava per primo a parlare con chiunque. Interpellava preferibilmente i bambini e le mamme. Alla fine, quando i suoi accompagnatori sentivano di precisare «È il patriarca», queste persone si stupivano felici; ancor più, secondo le testimonianze, egli agiva così durante le visite pastorali, o quando visitava le famiglie, gli anziani e i malati. Luciani sentiva molto l'esigenza sia di curare la comunicativa sul piano pastorale sia di mantenere una costante formazione della propria spiritualità, indicando ciò prima di tutto a sé stesso. Amava molto la letteratura. Era abbonato a numerose riviste internazionali, soprattutto francesi (leggeva in questa lingua con estrema disinvoltura), di spiritualità, patristica, teologia. A Belluno, dove pensava che sarebbe trascorsa tutta la sua vita, aveva donato i suoi libri al Seminario. Divenuto vescovo di Vittorio Veneto, cominciò a ricostruire una biblioteca secondo il suo gusto. A Venezia continuò ad acquistare libri della letteratura conosciuta in giovinezza, che citava nelle omelie o durante i dialoghi con i ragazzi della catechesi. Di questa si trova traccia nei suoi scritti sul "Gazzettino" e sul "Messaggero di S. Antonio": Dickens, Tolstoj, i grandi classici della letteratura mondiale.Il suo stile narrativo preferito appare come un flusso ininterrotto di pensieri e riflessioni intarsiati da molti ricordi personali, un'illustrazione robustamente sostenuta dall'inserimento di episodi esplicativi. Luciani sapeva conferire vigore alle parole: ogni concetto veniva efficacemente esposto con l'accortezza di riferirsi in prima persona all'ascoltatore per lo più dal livello culturale modesto. L'io narrante accompagnava naturalmente i suoi gesti: solo così, attraverso il discorrere sempre dolce e familiare, giungeva come effetto complementare il sorriso con cui egli si conquistò un posto perenne nella memoria popolare. L'immagine di "Papa del sorriso" passata alla storia non deve dunque essere intesa come segno di timidezza, imbarazzo, inadeguatezza, o quale indice esteriore di ingenuità: il sorriso, che gli veniva spontaneo, era "semplicemente" un altro modo di manifestarsi, mostrarsi e restare in mezzo agli altri. Luciani raggiungeva il cuore perchè sapeva emozionare, accarezzare i sentimenti più dolci, le speranze più forti dell'animo umano, il senso di pace, di carità, i pudichi ardori e amori, facendo riscoprire all'ascoltatore il suo mondo interiore con lo stesso stupore dei fanciulli. La semplicità dell'essere, del pensare, dell'agire, del mostrarsi costituisce una concreta testimonianza di quanto la reale semplicità evangelica sia essenza e trasparenza. Quella di Luciani era la vera sapienza del cuore rivolto a Dio e al prossimo. Il suo pontificato, pur brevissimo, fu sufficiente per proporre al mondo il carisma cristiano della semplicità che nasconde una grande forza interiore.
mercoledì 24 settembre 2008
MORIRE PER COSA ?
domenica 21 settembre 2008
DEDICA A TE CHE MI STAI LEGGENDO
E' domenica e dedico a tutti questa poesia di Nazim Hikhmet. E' un inno alla vita, scritto nel 1948. Di questo grande autore mi colpiscono non soltanto l'estro, l'istinto e l'intuizione artistica, ma il fatto che riesca (non c'è infatti tempo passato per l'animo e il cuore) a scrivere versi meravigliosi in momenti poco felici per il suo animo.
Alla vita (1948)
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola.
lunedì 8 settembre 2008
QUANDO NON C’E’ PIU’ L’UOMO
Di fianco a me sono scorse le immagini di migliaia di persone con volti che incontriamo anche oggi lungo una qualsiasi strada: c’erano perfino bei visi da attrici ed attori.
Sono salito sulla torre centrale da cui qualcuno controllava con fierezza un regno di lucida follìa; ho visto un militare dal fisico sportivo ed aitante ridere mentre un vecchio, barcollante, si stava trascinando verso la morte perché non poteva lavorare e dunque non serviva più a nessuno; ho visto un'immagine incredibilmente scattata di nascosto, col piccolo apparecchio sotto la veste, di ciò che vedeva una donna che stava per essere gasata e i messaggi scritti e nascosti sotto terra perché qualcuno un giorno sapesse; sono entrato nelle baracche-latrine dove la minima riservatezza non esisteva più, dove non c'era più differenza con le bestie, dove i nazisti pensavano di sfruttare persino i bio-gas prodotti dai prigionieri.
Ho attraversato questi allucinanti non-luoghi, ho ascoltato ancora dell'altro, e non ho nemmeno la forza di descrivere che cosa ho provato, perché non esistono parole adatte, ma solo il silenzio, per tentare di esprimere il peso d’angoscia che mi è sceso dentro, ma so che non potrò dimenticarmi, perché non lo voglio, il terrore negli occhi di un bambino, uno per tutti, paffutello ma bellissimo, mentre gli scattavano le foto identificative perché avevano calcolato che, dopo due settimane, a causa degli stenti, i suoi lineamenti, come per quelli di tutti gli altri condannati a morire, sarebbero stati irriconoscibili, e ho scelto di ricordarmi per sempre di lui. Non ho fatto in tempo a leggere il tuo nome, piccolo, ma non temere, tu non sparirai, come tutti gli altri cuccioli impauriti che si tenevano per mano mentre andavano alle docce.
I carcerieri erano gli stessi che davanti a Padre Kolbe disposto a sacrificarsi al posto di un padre di famiglia non sapevano come reagire: impietosi davanti a gente che voleva vivere, impreparati davanti a persone che sceglievano di morire.
Mi sono tornate in mente le ultime parole di un partigiano italiano davanti al plotone d’esecuzione: “Voi mi uccidete, ma siete voi ad avere paura”. Perché i disperati erano loro, i carcerieri.
lunedì 1 settembre 2008
UNO DEI MILLE DI GIUSEPPE GARIBALDI
La storia di Domenico Cariolato (1835-1910), anche senza particolari effetti speciali, rappresenta la base per un ottimo copione da film fin dalle prime scene. Nato a Vicenza, nelle fatidiche giornate del giugno 1848, appena tredicenne, Cariolato si distinse già nella difesa della città berica dalle truppe austriache del Maresciallo Radetzky.
Grazie alle gesta compiute nella difesa di Roma dall’assalto dei Francesi, l’anno seguente egli si vide riconosciuta una daga d’onore.
Dopo aver militato nel battaglione vicentino formato da volontari che seguirono con entusiasmo il Generale, Cariolato vestì la camicia rossa dei garibaldini nella leggendaria spedizione dei Mille (si distinse con particolar merito a Calatafimi) e da quel momento fu tra coloro che seguirono sempre da vicino le gesta di Garibaldi, divenendone nel tempo uomo di fiducia.
Combattente dai riconosciuti valore ed esperienza (fu peraltro tra i Cacciatori delle Alpi) Domenico Cariolato fu praticamente presente in tutte le più importanti battaglie del Risorgimento italiano, combattendo con onore anche a Bezzecca nel 1866.
Dal carteggio Cariolato-Garibaldi giunto fino a noi si evince che il colonnello vicentino intrattenne con il Generale nizzardo un solido rapporto personale anche negli anni della decadenza e della vecchiaia dell’uomo che fu il suo punto di riferimento di una intera carriera militare.
Queste sono soltanto alcune notizie della vita di Domenico Cariolato, patriota per lungo tempo dimenticato ed un uomo la cui vita rimane ancor oggi da riscoprire.
Saverio Mirijello (e-mail: savemir@tin.it)
AMORE IMPOSSIBILE
martedì 26 agosto 2008
Blog su PAPA LUCIANI
ho il piacere di invitarti a visitare il blog che ho creato su Giovanni Paolo I in occasione della ricorrenza dei trent’anni (1978 - 2008) dal suo pontificato.
L’indirizzo a cui puoi collegarti è il seguente:
http://papaluciani.blogspot.com/
giovedì 21 agosto 2008
UN ALTRO MODO DI LEGGERE IL MEDAGLIERE OLIMPICO
Come si vede, anche le classifiche possono finire come le opinioni al bar Sport: alla fine tutti ne abbiamo una valida.
martedì 12 agosto 2008
DAL VENETO AL MONDO: PAPA LUCIANI
IN UN LIBRO I VERI DISCORSI DI UN PONTEFICE A CUI PIACEVA IMPROVVISARE
di Gianmaria Pitton
Saverio Mirijello ebbe un moto di sorpresa quando, nell’ottobre del 2006, vide su Raiuno la fortunata fiction su papa Giovanni Paolo I, intitolata “Papa Luciani, il sorriso di Dio”, interpretata da Neri Marcorè. Sorpresa perché nei titoli di coda, nella bibliografia dei testi utilizzati come fonte per la sceneggiatura, c’era che un libro dello stesso Mirijello: “Con il cuore verso Dio. Intuizioni profetiche di Giovanni Paolo I”, pubblicato da Neri Pozza nel 1995 e distribuito in Italia da Longanesi. Libro fortunato, spiega Mirijello, tanto da essere praticamente esaurito, nonché apprezzato anche in ambienti autorevoli della Chiesa. Ma un libro stranamente “dimenticato”, anche se offre una documentazione particolarmente importante per conoscere da vicino papa Luciani. Saverio Mirijello infatti, in un anno e mezzo di lavoro, ha raccolto tutti i discorsi pronunciati da Giovanni Paolo I nel corso dei trentatré giorni del suo pontificato. Ma non compare semplicemente la versione ufficiale dei discorsi, bensì il testo effettivamente pronunciato dal papa il quale, spiega il curatore, «usava spesso modificare e integrare il testo preparato per la lettura parlando a braccio ai convenuti». Mirijello ha quindi rintracciato e trascritto le registrazioni, fornendo così la possibilità di capire come e dove il papa andasse oltre l’ufficialità del testo predisposto. Nel libro ci sono anche il messaggio di papa Luciani alla diocesi di Miami e il discorso preparato per l’udienza ai procuratori della Compagnia di Gesù, resi pubblici dopo la morte del pontefice, e un gruppetto di telegrammi e lettere. Suggestivo, fra i tanti testi presenti, il saluto alla folla in piazza S. Pietro, domenica 27 agosto: “Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere. Appena è cominciato il pericolo per me, i due colleghi che mi erano vicini m’hanno sussurrato parole di coraggio”. Poi la spiegazione del nome: Giovanni da Giovanni XXIII e Paolo da Paolo VI, i due pontefici suoi predecessori.
sabato 9 agosto 2008
venerdì 8 agosto 2008
8 AGOSTO: RICORDANDO MARCINELLE
LA TRAGEDIA. Gli uomini si erano appena calati, l'estrazione era cominciata quando sulla piattaforma del piano 975, per un malinteso come può sempre capitare, la gabbia si avvia prima del tempo mentre un vagone non bene inserito oltrepassa uno degli scomparti filando via verso la superficie, guadagnando velocità e danneggiando due cavi elettrici ad alta tensione. E’ un errore che però costerà molto caro. Un bagliore, poi il finimondo: le fiamme avvolgono rapidamente travi e strutture in legno. Non ci sarà scampo per molti uomini là sotto. Solo 7 operai riusciranno a risalire in superficie, accompagnati dalle prime volute di fumo nero, annunciando la tragedia che si sta consumando.
"SONO TUTTI MORTI". I soccorritori, intuito immediatamente cosa sta tragicamente succedendo, tentano l'impossibile e sfidano la temperatura infernale causata dall'incendio. Il giorno dopo i lavoratori sono ancora prigionieri: l'incendio non ha ancora coinvolto chi lavora ai livelli più bassi della miniera e per giorni si spera di poterli trovare ancora in vita. Ma all'alba del 23 agosto i soccorritori riemergono in superficie e le poche parole pronunciate da uno di loro pesano come un macigno: "Tutti morti". Li hanno trovati a 1.035 metri di profondità, avvinghiati gli uni agli altri in un'ultima disperata ricerca di aiuto e di solidarietà.
RABBIA E IMPOTENZA. Quel giorno tante povere famiglie chiamano invano nomi italiani. Dopo le grida, i pianti, le maledizioni, le donne non hanno più voce e lacrime per piangere i loro uomini. Solo la pietà umana e l'intuito dell'amore permetteranno, in alcuni casi, di riconoscere i corpi consunti dalle fiamme. Sarà bandiera a lutto per l'Italia, per i 406 orfani che malediranno per tutta la loro vita Martinelle, per il Paese dei poveri, degli emigranti, "merce di scambio" tra i governi italiano e belga che nel 1946 firmarono l'accordo "minatori-carbone": l'Italia forniva manodopera (47mila uomini nel '56) in cambio di carbone.
UNA VITA IN CAMBIO DI TANTE SPERANZE. Partiti da casa con poche cose, i minatori, lavoratori delle tenebre, sono inchiodati sotto un cielo perennemente grigio di bassi fumi, un paesaggio da "Cittadella" di Archibald Joseph Cronin, di pavé nero e sconnesso. E’ un lavoro massacrante che abbrutisce e sfama a stento. Ci sono il grisou in perenne agguato, i mucchi di scorie come severe sentinelle, le umide baracche divenute case tappezzate da tante cartoline illustrate di paesi col campanile in mezzo e la campagna attorno, un bicchiere di vino dozzinale ed una voglia disperata del sole di casa. In Belgio si muore di gas venefico, di fuoco, della mancanza di sicurezza nei pozzi, ma si perde la vita anche più lentamente, senza accorgersene, per le polveri di carbone che entrano nei polmoni, per l’alcool che ti brucia, per la fatica, la nebbia, la muffa che ti entrano dentro, per la nostalgia che ti corrode l’animo. Sono vite vendute sempre per troppi pochi soldi, e per un maledettissimo sacco di carbone.
martedì 5 agosto 2008
UN SAGGIO DI SAVERIO MIRIJELLO: CARIOLATO, LE GESTA DI UN FEDELISSIMO DI GARIBALDI
di Luca Valente
In prima linea nelle battaglie cruciali del Risorgimento, protagonista nella spedizione dei Mille, legato da sincera e duratura amicizia a Giuseppe Garibaldi. Domenico Cariolato (Vicenza, 7 luglio 1835 - Roma, 29 gennaio 1910) entra di diritto nella storia di quel periodo decisivo per la formazione dello stato nazionale. A ripercorrerne le gesta gloriose è Saverio Mirijello, autore di uno studio articolato che è stato recentemente pubblicato in sunto su un numero speciale della rivista Rassegna storica del Risorgimento, edito dall’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano di Roma in occasione del bicentenario della nascita dell’Eroe dei Due Mondi.
Quello di Cariolato nelle Guerre d’Indipendenza fu un esordio da predestinato. Il 10 giugno 1848, non ancora tredicenne, si distinse nella difesa di Vicenza assediata dagli austriaci salvando una donna e i suoi due bambini dall’esplosione di una bomba sulla quale si era gettato asportandone la miccia. Per il suo coraggio fu decorato con una medaglia di bronzo al valor militare da parte del Senato romano. Ma era solo l’inizio: l’anno successivo si arruolò nel battaglione vicentino della legione di Garibaldi, poi prese parte all’insurrezione di Genova, quindi combatté nella difesa della Repubblica Romana. In tale occasione il giovane garibaldino, preso prigioniero dai francesi, riuscì a fuggire, non prima di aver tenuto testa in un interrogatorio al generale Oudinot.Episodi ampiamente illustrati da Mirijello nella sua ricerca e riportati anche negli estratti pubblicati sulla rivista, dove trova ampio spazio soprattutto il rapporto di Cariolato con Garibaldi. Nel 1860, infatti, prese parte alla spedizione dei Mille (assieme ad altri 33 vicentini) e combatté nelle battaglie di Calatafimi, Milazzo e sul Volturno contro l’esercito borbonico. Si distinse in particolare nella prima, tanto che il Comune trapanese, successivamente, gli conferì la cittadinanza onoraria. Più volte promosso e decorato, nella battaglia di Bezzecca (1866) fu assegnato al quartier generale del condottiero nizzardo. L’anno successivo era ancora al fianco di Garibaldi, col grado di colonnello, nella sfortunata spedizione fermata a Mentana dalle truppe franco-pontificie.Al di là dei numerosi fatti d’arme che videro protagonista Cariolato, lo studio di Mirijello - che è alla ricerca di un editore, magari vicentino, disponibile a divulgarlo - presenta anche gli aspetti non eminentemente bellici del rapporto tra il generale in camicia rossa e il patriota vicentino, come la visita di Garibaldi a Vicenza del marzo 1867, durante la quale pronunciò un discorso dalla loggia della Basilica e la fitta corrispondenza tra i due, conservata al Museo del Risorgimento di Villa Guiccioli. Non mancano cenni all’esperienza civile e politica di Cariolato negli ultimi lustri dell’Ottocento, nonché al suo impegno come tutore dell’asilo di Bertesina, giardino d’infanzia creato con la moglie Anna Maria Piccoli.
giovedì 31 luglio 2008
mercoledì 30 luglio 2008
MARIO PER SEMPRE TRA GLI UROGALLI
“I miei brevi racconti non parlano di primavere silenziose, di alberi rinsecchiti… ma di cose che ancora si possono godere purché si abbia desiderio di vita, volontà di camminare e pazienza di osservare.” (Mario Rigoni Stern, “Uomini, boschi e api”)
Austero, silenzioso, composto come sempre, il Sergente Mario se n’è andato in punta di piedi. Ci ha insegnato tante cose, descrivendoci con le parole più semplici le leggi immutabili che regolano l’umanità e i sentimenti delle persone. Semplici e ignari protagonisti di vite da raccontare per la loro splendida specificità: boscaioli, minatori, allevatori di bestie, giardinieri, ferrovieri, venditori di stampe, recuperanti, migranti. Con l’arte della sua semplicità ci ha dimostrato che si può conoscere la vita osservando le stagioni, gli uomini e gli animali che abitano il nostro stesso tempo da una contrada al confine della porzione che ognuno di noi riceve in affido, senza la necessità di compiere infiniti, e talvolta inutilmente sfiancanti, viaggi continentali. Non è davvero poco, e non potremo mai finire di ringraziarlo soltanto per questa lezione.
Mario Rigoni Stern è un arguto scrittore che ha conosciuto sulla sua pelle il dramma della più pagliaccesca follìa umana, la guerra, ed un uomo che ha saputo fermarsi ad ascoltare la sottile ed inestimabile lirica della vita, conservandone il segreto nello scrigno del proprio silenzio anche per consegnarlo intatto un giorno a coloro, come molti dei suoi compagni nella tragica campagna di Russia, che non ebbero il tempo di scoprirlo fino in fondo.
Infaticabile testimone oculare di ciò che è l’orrore e di ciò che è il riscatto di un’esistenza altrimenti perduta, nel suo animo era rimasto conficcato il chiodo ghiacciato di un inverno maledetto, l’immagine d’interminabili colonne di uomini diretti al sacrificio più o meno consapevolmente, il pregnante odore del grasso sulla bocca della canna di un ridicolo fucile, il senso della presenza circostante della morte, in perenne e dolcissimo agguato, ma anche l’indimenticabile gusto delle patate rimediate nelle isbe, e il ritorno al vero giorno, alla vera vita. Quel chiodo non è così riuscito a soffocare la sua voce. Una volta tornato a casa, tra le sue montagne, Rigoni Stern comprese che sarebbe stata questa la sua missione: essere il cantore della speranza che non si arrende, non decade, non è intaccata dalle nostre angosce, qualunque ne sia la ragione.
Nel resto della sua vita Mario Rigoni Stern ci ha raffigurato con la sua penna frammenti di grandiosa bellezza, insegnandoci a ripartire indomiti, a non cedere all’egoismo e alla grettezza, a credere invece nella fratellanza, nella solidarietà, nella condivisione, perché è il senso stesso della vita a imporcelo. Oltre alle memorabili storie di animali, come possono essere quella del capriolo rimasto ferito in un rastrellamento che diventa una vendetta partigiana, del picchio rosso, della pernice bianca, delle api e dell’urogallo come del fagiano di monte o dell’asina Giorgia, da vero uomo delle montagne Rigoni Stern ha saputo descrivere magistralmente l’eterno ritorno a casa e raccontare la vita quotidiana che riparte comunque ogni giorno serenamente, con i suoi insostituibili personaggi.
Le sue dolorose cicatrici interiori sono diventate in questo modo le note di uno spartito di musica rigenerante, perchè radiosa e pulsante di amore in tutto ciò che significa essere semplicemente un uomo che abita il suo tempo e interagisce con la terra cui appartiene.
Altrettanto grande egli è stato nel descriverci il suono e le suggestioni dei temporali di primavera, come a rievocare il sordo rimbombo e le voci confuse dei commilitoni perduti durante la guerra, i segni sulla neve per ricordarne anche gli ultimi passi, l’affannata fuga per la vita dei ghiri e delle lepri, perché in fondo forse siamo davvero così pure noi uomini.
Tutti i libri di Mario Rigoni Stern sono animati e amati dalla gente semplice, perché è al loro nobile animo ch’egli non cesserà di rivolgersi. Usciti stremati da una guerra insensata come tutte le altre, gli abitanti del suo cuore ripartono dalle macerie dell’anima e dai relitti del loro tempo per ricomporre i tasselli di una nuova esistenza e rivivere i giorni di una rinnovata speranza.
Rigoni Stern conosceva erbe, pietre, funghi, canti di uccelli, e amava particolarmente gli alberi, intrecciando le proprie riflessioni sulla consonanza di destino fra questi e gli uomini, chiusi nella parabola eterna di nascita e morte, di gioia e sofferenza. Sapeva che lassù, in un posto lontano dai clamori e dagli affanni, la neve scende sempre silenziosa e puntuale, e che la natura alla fine dà una risposta a tutti: il dolore straziante inferto dal male, che pure si accanisce sull’uomo in ginocchio, è soltanto una componente essenziale della nostra vita.
Le persone comuni hanno raccolto il suo piccolo-grande messaggio, gli hanno voluto e gliene vorranno sempre: non esiste un miglior premio della riconoscenza silenziosa della tua stessa gente.
E adesso, Sergente Mario, siamo noi ad augurare buon cammino a te che ti sei avviato per precederci, come si sente in dovere di fare una seria, scrupolosa e premurosa guida.
Nel confortevole tepore della notte eterna, finalmente ritrovati, i tuoi fedeli compagni della raccolta interiore alla solitudine avranno molte cose da ricordarti.
venerdì 25 luglio 2008
DOMENICO CARIOLATO (1835-1910): UNO DEI MILLE DI GIUSEPPE GARIBALDI
L'e-book, raccolta completa di tutta la documentazione reperita da Saverio Mirijello durante il suo lavoro di ricerca e approfondimento, è leggibile su dispositivi iPhone, PC, Mac oppure Ipad. Sempre allo stesso indirizzo è inoltre possibile scaricarne gratuitamente le prime pagine.
(Aggiornamento: domenica 28 Ottobre 2012)
domenica 20 luglio 2008
ULTIMA LETTERA D'UN SOLDATO: L’AMORE CHE VINCE LA GUERRA
Ogni volta che la leggo, provo un tuffo al cuore. Testimonia l’attesa consapevole di una tragica fine, comunque eroica ma pur sempre di un giovane appena affacciatosi alla cognizione della responsabilità nella vita, verso sé stesso e nei confronti degli altri. Totalmente appassionata e dall’amarissimo sapore, è anche l’ultimo appello di un disperato attaccamento alla vita e al ricordo degli altri. Essa è divenuta patrimonio universale, e oggi possiede un valore simbolico inestimabile. Non esiste estate in cui, quando mi reco sull’Altopiano dei Sette Comuni e intravedo il Sacrario, non penso, almeno per un momento, a quel giovanissimo ufficiale italiano e a quei fogli che gridano incessantemente amore con tutta la forza possibile. Mi fa piacere ricordare che lui e il suo esempio rimangono vivi e palpitanti, e che il suo nome non è andato perduto nella nebbia della guerra. Il testo di quel tenente caduto sull’Ortigara è la rappresentazione perfetta dello stato d’animo e del coraggio di tanti altri uomini, fossero rispettivamente suoi sottoposti o pari grado (molti soldati, se sapevano scrivere, ci riuscivano a stento), e credo esprima perfettamente ciò che tutti provavano nelle stesse ore. Quando vi capita di passare da quelle parti, non dimenticate di rivolgere loro un piccolo pensiero. Non vi costa nulla e nello stesso tempo potrete continuare a spostarvi in libertà e ad assaporare la vita del vostro giorno, magari insieme a chi amate. Anche questo è un modo per ringraziare Adolfo Ferrero e tutti gli altri Caduti per averci concesso di godercela.
giovedì 17 luglio 2008
OLTRE IL MURO CHE ABBIAMO DENTRO
mercoledì 16 luglio 2008
GIUSTI PER COSA?
Non c’è da abbattersi, perché di certo il futuro è a favore di chi non si ferma a compiangersi. Occorre invece continuare a studiare, prepararsi, aver “fame” di approfondire le cose, tenere insomma aperta la propria mente, senza mai pensare di vivere di rendita con le nozioni acquisite fino ai 35 anni, perché la cultura è prima di tutto una difesa, ricordando che ogni giorno vengono allegramente tagliate molte ali a tanti giovani (di spirito, non solo di anagrafe) che propongono idee originali, innovative o finanche idiote, ma che almeno ci provano.
E allora, se avete tra i 20 e i 40 anni, se sentite dirvi in italiano o nel vostro dialetto: “Giovane, ma dove credi di andare?”, sappiate che siete molto probabilmente sulla strada giusta. O che almeno, ci state provando.
sabato 12 luglio 2008
COSA RESTA DI LLORET DE MAR
sabato 28 giugno 2008
GIGI MENEGHELLO E IL VALORE DELLA PAROLA COME IMMAGINE
Ricordare i nostri migliori scrittori è dunque ricordare anche a noi stessi che oltre alle sue ricchezze esteriori la nostra terra conserva nel suo invisibile forziere il patrimonio d’insegnamento d’una inesauribile memoria.
Un anno fa, nel breve passaggio d’una notte di mezza estate e in un mese di giugno altrettanto torrido, anche Luigi Meneghello è uscito di scena con uno stile da perfetto gentleman, come ci aveva abituati.
E' stato giustamente scritto in questi giorni che rivivere nelle parole dei coetanei (familiari, amici e conoscenti della tua stessa classe) è un fatto normale, ma venire onorati dai giovani della generazione successiva, è qualcosa di veramente speciale. Significa che ti hanno spontaneamente riconosciuto come riferimento: un vero Maestro, capace d’insegnare a chiunque qualcosa di veramente importante, una persona di cui ci si può civilmente fidare, un uomo la cui terra d’origine è stata qui, ma ha costituito solo il piccolo ramo su cui appoggiarsi per aprire le ali e raggiungere tutto il mondo. Significa che sei stato capace di essere locale e globale, com’è d’obbligo oggi. A Luigi (per tutto il mondo), a Gigi (per noi) Meneghello questo è capitato, e il suo spirito libero, come il nostro senso di appartenenza ad un luogo comune a tutti, ne potranno andare sempre orgogliosi. Con la sua scomparsa nulla è veramente finito. Il tema a lui più caro e più citato, il valore magico della parola quale “immagine intensificata delle cose”, resterà con noi, e l’universo meneghelliano, agli occhi, alla mente e al cuore dei suoi stessi abitanti, rimarrà ancora tutto da scoprire e rivisitare.
sabato 14 giugno 2008
Pioggia d'estate cade dentro di me
acini d'uva si schiacciano contro i miei vetri
gli occhi delle mie foglie sono abbagliati
pioggia d'estate cade dentro di me
piccioni d'argento volano dai miei tetti
la mia terra corre coi piedi nudi
pioggia d'estate cade dentro di me
una donna è scesa dal tram
i polpacci bianchi bagnati
pioggia d'estate cade dentro di me
senza rinfrescare la mia tristezza
pioggia d'estate cade dentro di me
all'improvviso s'arresta
il peso dell'afa è rimasto dov'era
al termine delle grosse rotaie
arrugginite.
Mi dà particolare soddisfazione sapere che tra i visitatori del mio blog posso contare su lettori così attenti.
Rispondo così con piacere al cortese commento ricevuto nei giorni scorsi, tramite cui mi si chiede di inserire qualcosa di Nazim Hikmet (1901-1963), altro poeta che amo e col quale, leggendo l'autobiografia, ho scoperto di condividere un particolare momento della mia vita.
Nazim Hikmet (Nâzım Hikmet Ran) nacque a Salonicco. Il suo primo contatto con la poesia avvenne grazie al nonno paterno. Questi infatti, oltre che pascià e governatore di varie province, era anche scrittore e poeta in lingua ottomana, vale a dire in una lingua, come scrisse Hikmet stesso, “in cui la maggior parte delle parole erano arabe o persiane”. Hikmet studiò per un breve periodo nel liceo francese di Galatasaray (Istanbul), poi anche nell'Accademia della Marina militare che però dovette abbandonare per ragioni di salute; scappò in Anatolia, dove si svolgeva la guerra di liberazione guidata dal nazionalista Atatürk (Mustafà Kemal) e qui fece il maestro di scuola a Bolu. Nel 1921, a soli 19 anni, lasciò il partito kemalista. Scoperti i testi di Marx e la rivoluzione sovietica, dai quali rimase affascinato, decise di emigrare: andò a Mosca e s'iscrisse alla facoltà di sociologia dell'Università comunista dei lavoratori d'Oriente. In questo periodo, sempre continuando a frequentare l'università, Hikmet conobbe Lenin ed incontrò Esenin e Majakovskij. Tornato in patria nel 1924, dovette scappare dopo appena un anno, quando fu arrestato e accusato di collaborare con una rivista di sinistra. Tornato in Turchia soltanto nel 1928 e senza il visto, scrisse vari articoli e componimenti. Fu condannato alla prigione per il suo ritorno irregolare ma nel 1935 gli venne concessa l’amnistia. Nel 1938 fu condannato dal governo turco, fortemente anticomunista, a 28 anni e 4 mesi di prigione per le sue attività antinaziste ed antifranchiste. Nel 1949 si creò una commissione che si battè per la sua liberazione (di questa facevano parte, tra gli altri, Jean Paul Sartre e Pablo Picasso) ed un anno dopo Hikmet venne liberato. Si sposò con Münevver Andaç, traduttrice in francese e polacco. A causa delle forti pressioni prodotte dal governo, fu costretto a ritornare in Unione Sovietica, ma la moglie e il figlio non poterono seguirlo. Nel 1959 perse la cittadinanza turca e scelse di diventare cittadino polacco. Nonostante un secondo attacco di cuore continuò a viaggiare e a lavorare intensamente, visitando l’Europa dell’Est, Roma, Parigi, L’Avana e Pechino. Nazim Hikmet morì a Mosca il 3 giugno 1963 (nello stesso giorno in cui spirava papa Giovanni XXIII), colpito da un infarto. Nel 2002, ad un secolo dalla sua nascita, a seguito anche alla petizione firmata da oltre mezzo milione di cittadini turchi, il governo turco ha deciso di ridare a Nazim Hikmet la cittadinanza turca toltagli nel 1951.
Ho voluto descrivere un po’ la vita di Hikmet perchè merita di essere conosciuta almeno nelle linee essenziali e per contribuire a far sì che chi non conosce molto la sua esperienza umana possa meglio approfondirla per apprezzare maggiormente la sua poetica. Protagonista (spesso vittima) di una esistenza assai travagliata, Hikmet era capace nello stesso tempo di far piangere e sorridere, di amare, di soffrire e di cantare la bellezza della vita. “E cantava - racconta il suo amico Pablo Neruda - prima piano e poi sempre più forte, a squarciagola, per vincere la sua debolezza e rispondere ai suoi torturatori. Cantava in mezzo agli escrementi delle latrine, dove lo avevano costretto a stare dopo averlo fatto a camminare fino all'esaurimento delle forze”.
ALLA VITA
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non é uno scherzo.
Prendila sul serio ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla é più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Chi meglio di Hikmet, e di pochi altri poeti, può esaltare il dolore e la gioia della vita per cui vale comunque la pena affrontarla?
IL PIU' BELLO DEI MARI
Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.
Grazie a Nazim Hikmet per quello che ci ha dato, nonostante tutto ciò che da uomo ha subito da parte dei suoi simili, e grazie ancora all’anonimo lettore del mio blog per avermi permesso di ricordarlo in questo piccolo spazio.