Karl Unterkircher aveva 38 anni. Più che scalare una montagna, aveva come obiettivo sfidare un muro dentro di sé: quello della paura. Ognuno di noi ne ha davanti qualcuno, in una qualsiasi forma e materia, che sia di roccia, di ghiaccio, di carta o di parole. Karl, stella ascendente dell’alpinismo italiano, aveva scalato l’Everest e il K2 nella stessa stagione. Come un sub delle altezze estreme, riusciva ad arrivarci senza l’ossigeno, che ad una certa quota viene a mancare, e l’aria rarefatta ti può togliere il respiro e la vita. Il Nanga Parabat aveva spento 31 vite prima che nel luglio 1953 uno scalatore austriaco, Hermann Buhl, ne toccasse il limite divenuto quasi sacro, e lo profanasse per sempre. Cinquantacinque anni dopo gli 8.000 non fanno più parte delle cosiddette “sfide impossibili” per un uomo. Adesso la sfida da lanciare sta nel giungere in cima attraverso una parete: nessuno finora c’è riuscito. Ci saranno ancora dei tentativi inutili, ma prima o poi qualcuno ce la farà. Nelle ultime pagine elettroniche che Karl Unterkircher ha lasciato a tutti attraverso il suo diario pubblicato su Internet, aveva scritto il 13 luglio: “Poco prima di partire uscivo dal bar e ho inciampato in un vaso di fiori”. Scherzava sul fatto che qualcuno pensasse come diavolo poteva sfidare una montagna se non riusciva nemmeno a stare in piedi a livello del mare. Forse, col facile senno di poi e le ormai inutili ricerche di una logica nella morte di un alpinista scrupoloso come lui, è come se avesse ricevuto un sinistro preavviso di ciò a cui andava incontro. Il suo muro finale, prima che lui lo cercasse, lo stava già aspettando, con le sue insidie celate ma non troppo, come le scariche di ghiaccio, quegli stessi ostacoli di forza incontrastabile, soprattutto imprevedibile, di cui Karl aveva paura guardandoli dalla sua tenda, ma che non ha esitato ad affrontare, nonostante tutto gli dicesse che era meglio ritornare sui suoi passi. La sua morte ci ha ricordato che ovunque c’è sempre un rischio che ti attende per metterti alla prova di te stesso, ed esiste una conseguente responsabilità che ti devi assumere per contrastarlo e andare avanti, oltre. Anche se rimarrai solo e verrai abbandonato dai tuoi compagni improvvisati, di ventura, o perfino di sangue, perché oltre un certo limite nessuno ti può aiutare, perché deve badare già a sopravvivere. Molti uomini, la maggior parte dei quali rimarranno sconosciuti, nel momento in cui leggete queste righe stanno scalando altre montagne. Davanti a loro, con la stessa legittima paura di Karl, osservano una grande parete. Sanno, come lui, che non torneranno indietro, che alla fine rimarranno anche soli, eppure avanzeranno ugualmente verso di essa.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commento:
La nostra vita è fatta di continue sfide...ed è giusto sia così!...ma nessuno sa cosa ci attende e cosa può succederci... Credo comunque che la vita che abbiamo è un dono ed è anche nostro dovere salvaguardarla ed avere cura di noi stessi. Per questo ritengo dobbiamo avere l'intelligenza e la capacità di porre dei limiti alle sfide...cercando di non affrontare troppo la natura, che spesso non perdona, ed essere più contenti di noi stessi, dei nostri traguardi quotidiani accontentandoci ed assaporando quello che ogni giorno ci viene regalato... Con questo non voglio dire di vivere passivamente, ma con ragionevolezza...perchè già in questo modo il nostro destino non lo sappiamo...
Posta un commento