di Saverio Mirijello
Un oggetto in sé non ha nulla di male: è il suo utilizzo a renderlo strumento apportatore di beneficio, di benessere oppure di sventura e sofferenza. Ogni oggetto, pur apparentemente semplice e nella sua fredda immobilità, può dunque esprimere, nel bene e nel male, la rappresentazione di un’epoca. E a volte ciò accade in un modo tanto intenso e diffuso da rendere quello stesso oggetto profondamente emblematico e significativo. Come l’elmetto Adrian, l’icona più rappresentativa della Grande Guerra, l’inseparabile compagno del soldato delle grandi battaglie combattute sul suolo veneto, europeo e mondiale, nel primo grande conflitto che scosse l’umanità. La storia di questo copricapo parte da un’idea concepita dall’ufficiale Louis Auguste Adrian chiamato, nel 1914, a risolvere in tempi rapidi i seri problemi di equipaggiamento delle truppe francesi, e che riuscì ad escogitare una delle protezioni belliche più diffuse della storia moderna.
La concezione ed estetica dell’Adrian rappresentarono il momento di transito da una guerra antica ad una moderna: per via delle ridotte dimensioni, per il profilo, per la sua leggerezza e semplicità concettuale, non a caso l’elmetto francese assomiglia molto anche agli elmi semplici ed essenziali dei soldati più antichi. Si stima in generale che la produzione complessiva dell’elmetto Adrian si aggiri intorno a circa 20 milioni di esemplari, distribuiti in vari periodi e in numerosi Paesi. E’ una stima comunque approssimativa, dato che molti eserciti usarono l’elmetto francese.
Prima della rapida diffusione dell’Adrian tra le truppe, si andava in guerra con dei caschi improbabili, spesso meramente rappresentativi, se non addirittura d’ingombro; già appena dopo l’inizio del suo impiego, seppur non del tutto risolutivo per la salvaguardia del capo (risultava infatti pericolosamente fragile ai colpi diretti sul fianco), esso rappresentò l’inizio di una profonda rivoluzione nella dotazione difensiva, e venne presto adottato per essere impiegato per lungo tempo anche dopo la Prima Guerra Mondiale, dagli eserciti di una ventina di nazioni.
Le stesse forze armate italiane continuarono ad adottare il copricapo della Grande Guerra come elmetto d’ordinanza per tutti gli anni ’20 e per parte degli anni ’30.Per disegno e materiali, l’intuizione dell’ufficiale Adrian rappresentò un nuovo modo di concepire la guerra, tenendo in considerazione la sopravvivenza dei soldati.
Le stesse forze armate italiane continuarono ad adottare il copricapo della Grande Guerra come elmetto d’ordinanza per tutti gli anni ’20 e per parte degli anni ’30.Per disegno e materiali, l’intuizione dell’ufficiale Adrian rappresentò un nuovo modo di concepire la guerra, tenendo in considerazione la sopravvivenza dei soldati.
L’Adrian divenne l’immagine stessa del fante, dell’uomo esposto all’imperversare degli eventi bellici, ed ancor oggi evoca, andando ben oltre l’apparente freddezza del metallo, vicende umane tanto minime quanto grandiose di un grande conflitto.
Se l’elmetto tedesco, studiato da un chirurgo, August Bier, e contemporaneo del copricapo transalpino, ha lasciato in particolar modo un’impronta indelebile nella successiva storia dell’elmetto militare, l’Adrian fu l’elmetto più diffuso durante il conflitto ed indossato invariabilmente da soldati e generali.
L’Adrian è forse divenuto il simbolo della I Guerra Mondiale perché, non avendo lasciato eredità tecnico-militari di particolare rilievo, la sua immagine è inevitabilmente rimasta legata al primo grande conflitto mondiale.
Del resto, fatte alcune eccezioni, il casco metallico francese rimase nella sua struttura di base assolutamente immutato, e questo contribuì senz’altro a renderlo un’icona certa e immutabile della Grande Guerra.
Del resto, fatte alcune eccezioni, il casco metallico francese rimase nella sua struttura di base assolutamente immutato, e questo contribuì senz’altro a renderlo un’icona certa e immutabile della Grande Guerra.
Di un copricapo ci può essere molto da scoprire. Un elmetto, anche nel suo attuale stato di conservazione, ci racconta infatti sempre qualcosa della sorte di chi lo ha utilizzato. Così, se un esemplare sostanzialmente integro ci fa pensare bene circa la sorte del soldato che lo indossò, altrettanto inconsciamente un elmetto forato da una pallottola o lacerato da una scheggia, come se ne trovano ancora negli scavi nei luoghi veneti che furono interessati dalle battaglie, ci riconduce ad una tragedia in battaglia e alla storia d’un uomo con la pagina finale barbaramente strappata.
(Da "Veneti nel Mondo", agosto 2009)
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