giovedì 31 luglio 2008
mercoledì 30 luglio 2008
MARIO PER SEMPRE TRA GLI UROGALLI
(Da "Realtà Vicentina", anno XIX, n. 10, luglio 2008)
“I miei brevi racconti non parlano di primavere silenziose, di alberi rinsecchiti… ma di cose che ancora si possono godere purché si abbia desiderio di vita, volontà di camminare e pazienza di osservare.” (Mario Rigoni Stern, “Uomini, boschi e api”)
Austero, silenzioso, composto come sempre, il Sergente Mario se n’è andato in punta di piedi. Ci ha insegnato tante cose, descrivendoci con le parole più semplici le leggi immutabili che regolano l’umanità e i sentimenti delle persone. Semplici e ignari protagonisti di vite da raccontare per la loro splendida specificità: boscaioli, minatori, allevatori di bestie, giardinieri, ferrovieri, venditori di stampe, recuperanti, migranti. Con l’arte della sua semplicità ci ha dimostrato che si può conoscere la vita osservando le stagioni, gli uomini e gli animali che abitano il nostro stesso tempo da una contrada al confine della porzione che ognuno di noi riceve in affido, senza la necessità di compiere infiniti, e talvolta inutilmente sfiancanti, viaggi continentali. Non è davvero poco, e non potremo mai finire di ringraziarlo soltanto per questa lezione.
Mario Rigoni Stern è un arguto scrittore che ha conosciuto sulla sua pelle il dramma della più pagliaccesca follìa umana, la guerra, ed un uomo che ha saputo fermarsi ad ascoltare la sottile ed inestimabile lirica della vita, conservandone il segreto nello scrigno del proprio silenzio anche per consegnarlo intatto un giorno a coloro, come molti dei suoi compagni nella tragica campagna di Russia, che non ebbero il tempo di scoprirlo fino in fondo.
Infaticabile testimone oculare di ciò che è l’orrore e di ciò che è il riscatto di un’esistenza altrimenti perduta, nel suo animo era rimasto conficcato il chiodo ghiacciato di un inverno maledetto, l’immagine d’interminabili colonne di uomini diretti al sacrificio più o meno consapevolmente, il pregnante odore del grasso sulla bocca della canna di un ridicolo fucile, il senso della presenza circostante della morte, in perenne e dolcissimo agguato, ma anche l’indimenticabile gusto delle patate rimediate nelle isbe, e il ritorno al vero giorno, alla vera vita. Quel chiodo non è così riuscito a soffocare la sua voce. Una volta tornato a casa, tra le sue montagne, Rigoni Stern comprese che sarebbe stata questa la sua missione: essere il cantore della speranza che non si arrende, non decade, non è intaccata dalle nostre angosce, qualunque ne sia la ragione.
Nel resto della sua vita Mario Rigoni Stern ci ha raffigurato con la sua penna frammenti di grandiosa bellezza, insegnandoci a ripartire indomiti, a non cedere all’egoismo e alla grettezza, a credere invece nella fratellanza, nella solidarietà, nella condivisione, perché è il senso stesso della vita a imporcelo. Oltre alle memorabili storie di animali, come possono essere quella del capriolo rimasto ferito in un rastrellamento che diventa una vendetta partigiana, del picchio rosso, della pernice bianca, delle api e dell’urogallo come del fagiano di monte o dell’asina Giorgia, da vero uomo delle montagne Rigoni Stern ha saputo descrivere magistralmente l’eterno ritorno a casa e raccontare la vita quotidiana che riparte comunque ogni giorno serenamente, con i suoi insostituibili personaggi.
Le sue dolorose cicatrici interiori sono diventate in questo modo le note di uno spartito di musica rigenerante, perchè radiosa e pulsante di amore in tutto ciò che significa essere semplicemente un uomo che abita il suo tempo e interagisce con la terra cui appartiene.
Altrettanto grande egli è stato nel descriverci il suono e le suggestioni dei temporali di primavera, come a rievocare il sordo rimbombo e le voci confuse dei commilitoni perduti durante la guerra, i segni sulla neve per ricordarne anche gli ultimi passi, l’affannata fuga per la vita dei ghiri e delle lepri, perché in fondo forse siamo davvero così pure noi uomini.
Tutti i libri di Mario Rigoni Stern sono animati e amati dalla gente semplice, perché è al loro nobile animo ch’egli non cesserà di rivolgersi. Usciti stremati da una guerra insensata come tutte le altre, gli abitanti del suo cuore ripartono dalle macerie dell’anima e dai relitti del loro tempo per ricomporre i tasselli di una nuova esistenza e rivivere i giorni di una rinnovata speranza.
Rigoni Stern conosceva erbe, pietre, funghi, canti di uccelli, e amava particolarmente gli alberi, intrecciando le proprie riflessioni sulla consonanza di destino fra questi e gli uomini, chiusi nella parabola eterna di nascita e morte, di gioia e sofferenza. Sapeva che lassù, in un posto lontano dai clamori e dagli affanni, la neve scende sempre silenziosa e puntuale, e che la natura alla fine dà una risposta a tutti: il dolore straziante inferto dal male, che pure si accanisce sull’uomo in ginocchio, è soltanto una componente essenziale della nostra vita.
Le persone comuni hanno raccolto il suo piccolo-grande messaggio, gli hanno voluto e gliene vorranno sempre: non esiste un miglior premio della riconoscenza silenziosa della tua stessa gente.
E adesso, Sergente Mario, siamo noi ad augurare buon cammino a te che ti sei avviato per precederci, come si sente in dovere di fare una seria, scrupolosa e premurosa guida.
Nel confortevole tepore della notte eterna, finalmente ritrovati, i tuoi fedeli compagni della raccolta interiore alla solitudine avranno molte cose da ricordarti.
“I miei brevi racconti non parlano di primavere silenziose, di alberi rinsecchiti… ma di cose che ancora si possono godere purché si abbia desiderio di vita, volontà di camminare e pazienza di osservare.” (Mario Rigoni Stern, “Uomini, boschi e api”)
Austero, silenzioso, composto come sempre, il Sergente Mario se n’è andato in punta di piedi. Ci ha insegnato tante cose, descrivendoci con le parole più semplici le leggi immutabili che regolano l’umanità e i sentimenti delle persone. Semplici e ignari protagonisti di vite da raccontare per la loro splendida specificità: boscaioli, minatori, allevatori di bestie, giardinieri, ferrovieri, venditori di stampe, recuperanti, migranti. Con l’arte della sua semplicità ci ha dimostrato che si può conoscere la vita osservando le stagioni, gli uomini e gli animali che abitano il nostro stesso tempo da una contrada al confine della porzione che ognuno di noi riceve in affido, senza la necessità di compiere infiniti, e talvolta inutilmente sfiancanti, viaggi continentali. Non è davvero poco, e non potremo mai finire di ringraziarlo soltanto per questa lezione.
Mario Rigoni Stern è un arguto scrittore che ha conosciuto sulla sua pelle il dramma della più pagliaccesca follìa umana, la guerra, ed un uomo che ha saputo fermarsi ad ascoltare la sottile ed inestimabile lirica della vita, conservandone il segreto nello scrigno del proprio silenzio anche per consegnarlo intatto un giorno a coloro, come molti dei suoi compagni nella tragica campagna di Russia, che non ebbero il tempo di scoprirlo fino in fondo.
Infaticabile testimone oculare di ciò che è l’orrore e di ciò che è il riscatto di un’esistenza altrimenti perduta, nel suo animo era rimasto conficcato il chiodo ghiacciato di un inverno maledetto, l’immagine d’interminabili colonne di uomini diretti al sacrificio più o meno consapevolmente, il pregnante odore del grasso sulla bocca della canna di un ridicolo fucile, il senso della presenza circostante della morte, in perenne e dolcissimo agguato, ma anche l’indimenticabile gusto delle patate rimediate nelle isbe, e il ritorno al vero giorno, alla vera vita. Quel chiodo non è così riuscito a soffocare la sua voce. Una volta tornato a casa, tra le sue montagne, Rigoni Stern comprese che sarebbe stata questa la sua missione: essere il cantore della speranza che non si arrende, non decade, non è intaccata dalle nostre angosce, qualunque ne sia la ragione.
Nel resto della sua vita Mario Rigoni Stern ci ha raffigurato con la sua penna frammenti di grandiosa bellezza, insegnandoci a ripartire indomiti, a non cedere all’egoismo e alla grettezza, a credere invece nella fratellanza, nella solidarietà, nella condivisione, perché è il senso stesso della vita a imporcelo. Oltre alle memorabili storie di animali, come possono essere quella del capriolo rimasto ferito in un rastrellamento che diventa una vendetta partigiana, del picchio rosso, della pernice bianca, delle api e dell’urogallo come del fagiano di monte o dell’asina Giorgia, da vero uomo delle montagne Rigoni Stern ha saputo descrivere magistralmente l’eterno ritorno a casa e raccontare la vita quotidiana che riparte comunque ogni giorno serenamente, con i suoi insostituibili personaggi.
Le sue dolorose cicatrici interiori sono diventate in questo modo le note di uno spartito di musica rigenerante, perchè radiosa e pulsante di amore in tutto ciò che significa essere semplicemente un uomo che abita il suo tempo e interagisce con la terra cui appartiene.
Altrettanto grande egli è stato nel descriverci il suono e le suggestioni dei temporali di primavera, come a rievocare il sordo rimbombo e le voci confuse dei commilitoni perduti durante la guerra, i segni sulla neve per ricordarne anche gli ultimi passi, l’affannata fuga per la vita dei ghiri e delle lepri, perché in fondo forse siamo davvero così pure noi uomini.
Tutti i libri di Mario Rigoni Stern sono animati e amati dalla gente semplice, perché è al loro nobile animo ch’egli non cesserà di rivolgersi. Usciti stremati da una guerra insensata come tutte le altre, gli abitanti del suo cuore ripartono dalle macerie dell’anima e dai relitti del loro tempo per ricomporre i tasselli di una nuova esistenza e rivivere i giorni di una rinnovata speranza.
Rigoni Stern conosceva erbe, pietre, funghi, canti di uccelli, e amava particolarmente gli alberi, intrecciando le proprie riflessioni sulla consonanza di destino fra questi e gli uomini, chiusi nella parabola eterna di nascita e morte, di gioia e sofferenza. Sapeva che lassù, in un posto lontano dai clamori e dagli affanni, la neve scende sempre silenziosa e puntuale, e che la natura alla fine dà una risposta a tutti: il dolore straziante inferto dal male, che pure si accanisce sull’uomo in ginocchio, è soltanto una componente essenziale della nostra vita.
Le persone comuni hanno raccolto il suo piccolo-grande messaggio, gli hanno voluto e gliene vorranno sempre: non esiste un miglior premio della riconoscenza silenziosa della tua stessa gente.
E adesso, Sergente Mario, siamo noi ad augurare buon cammino a te che ti sei avviato per precederci, come si sente in dovere di fare una seria, scrupolosa e premurosa guida.
Nel confortevole tepore della notte eterna, finalmente ritrovati, i tuoi fedeli compagni della raccolta interiore alla solitudine avranno molte cose da ricordarti.
venerdì 25 luglio 2008
DOMENICO CARIOLATO (1835-1910): UNO DEI MILLE DI GIUSEPPE GARIBALDI
La ricostruzione dell'avventurosa vita di Domenico Cariolato è ora disponibile in versione digitale nell'e-book intitolato "IL SOLDATO FANCIULLO E GARIBALDI", scaricabile dal Kindle Store di Amazon.
Si tratta dei risultati di due anni di studio sulla figura del patriota berico e sugli avvenimenti che lo videro coinvolto: da quand’egli, nel 1848, appena dodicenne, si distinse nella difesa di Vicenza assediata dagli Austriaci, alla sua partecipazione con la camicia rossa nella leggendaria Spedizione dei Mille; nell’impegno civile e sociale dopo il raggiungimento dell’Unità, attraverso il perenne legame di affetto e stima con Garibaldi; nella difesa dei valori in cui egli credette fino alla fine dei suoi giorni.
L'e-book, raccolta completa di tutta la documentazione reperita da Saverio Mirijello durante il suo lavoro di ricerca e approfondimento, è leggibile su dispositivi iPhone, PC, Mac oppure Ipad. Sempre allo stesso indirizzo è inoltre possibile scaricarne gratuitamente le prime pagine.
L'e-book, raccolta completa di tutta la documentazione reperita da Saverio Mirijello durante il suo lavoro di ricerca e approfondimento, è leggibile su dispositivi iPhone, PC, Mac oppure Ipad. Sempre allo stesso indirizzo è inoltre possibile scaricarne gratuitamente le prime pagine.
Altre info sul patriota risorgimentale vicentino sono ora disponibili sul sito dedicato: domenicocariolato.blogspot.com
(Aggiornamento: domenica 28 Ottobre 2012)
(Aggiornamento: domenica 28 Ottobre 2012)
domenica 20 luglio 2008
ULTIMA LETTERA D'UN SOLDATO: L’AMORE CHE VINCE LA GUERRA
Ci sono lettere che coniugano alla perfezione Amore e Morte: sono quelle dei condannati a perdere di lì a poco la vita, da chi è consapevole di vivere le ultime ore della sua esistenza. Presso il Museo del Sacrario Militare di Asiago (Vicenza) è esposta una lettera-testamento (http://www.anacanove.it/museoguerra/?Lettera_testamento_del_Ten._Adolfo_Ferrero), terminata nella notte della vigilia della battaglia dell’Ortigara (giugno 1917) dal ten. Adolfo Ferrero, torinese, 20 anni, appartenente al 30° Reggimento Alpini Battaglione Val Dora. Decorato con Medaglia d’Argento al Valor Militare, laureato ad Honorem in Lettere e Filosofia, cadde il giorno dopo averla scritta e le sue spoglie riposano nel Sacrario Militare di Asiago. All'ingresso del Sacrario è esposta anche una copia della stessa lettera, vergata due volte dallo stesso soldato affinché potesse giungere a destinazione ai suoi cari. Ai margini dei fogli che la compongono si scorgono delle macchie: sono di sangue.
Ogni volta che la leggo, provo un tuffo al cuore. Testimonia l’attesa consapevole di una tragica fine, comunque eroica ma pur sempre di un giovane appena affacciatosi alla cognizione della responsabilità nella vita, verso sé stesso e nei confronti degli altri. Totalmente appassionata e dall’amarissimo sapore, è anche l’ultimo appello di un disperato attaccamento alla vita e al ricordo degli altri. Essa è divenuta patrimonio universale, e oggi possiede un valore simbolico inestimabile. Non esiste estate in cui, quando mi reco sull’Altopiano dei Sette Comuni e intravedo il Sacrario, non penso, almeno per un momento, a quel giovanissimo ufficiale italiano e a quei fogli che gridano incessantemente amore con tutta la forza possibile. Mi fa piacere ricordare che lui e il suo esempio rimangono vivi e palpitanti, e che il suo nome non è andato perduto nella nebbia della guerra. Il testo di quel tenente caduto sull’Ortigara è la rappresentazione perfetta dello stato d’animo e del coraggio di tanti altri uomini, fossero rispettivamente suoi sottoposti o pari grado (molti soldati, se sapevano scrivere, ci riuscivano a stento), e credo esprima perfettamente ciò che tutti provavano nelle stesse ore. Quando vi capita di passare da quelle parti, non dimenticate di rivolgere loro un piccolo pensiero. Non vi costa nulla e nello stesso tempo potrete continuare a spostarvi in libertà e ad assaporare la vita del vostro giorno, magari insieme a chi amate. Anche questo è un modo per ringraziare Adolfo Ferrero e tutti gli altri Caduti per averci concesso di godercela.
Ogni volta che la leggo, provo un tuffo al cuore. Testimonia l’attesa consapevole di una tragica fine, comunque eroica ma pur sempre di un giovane appena affacciatosi alla cognizione della responsabilità nella vita, verso sé stesso e nei confronti degli altri. Totalmente appassionata e dall’amarissimo sapore, è anche l’ultimo appello di un disperato attaccamento alla vita e al ricordo degli altri. Essa è divenuta patrimonio universale, e oggi possiede un valore simbolico inestimabile. Non esiste estate in cui, quando mi reco sull’Altopiano dei Sette Comuni e intravedo il Sacrario, non penso, almeno per un momento, a quel giovanissimo ufficiale italiano e a quei fogli che gridano incessantemente amore con tutta la forza possibile. Mi fa piacere ricordare che lui e il suo esempio rimangono vivi e palpitanti, e che il suo nome non è andato perduto nella nebbia della guerra. Il testo di quel tenente caduto sull’Ortigara è la rappresentazione perfetta dello stato d’animo e del coraggio di tanti altri uomini, fossero rispettivamente suoi sottoposti o pari grado (molti soldati, se sapevano scrivere, ci riuscivano a stento), e credo esprima perfettamente ciò che tutti provavano nelle stesse ore. Quando vi capita di passare da quelle parti, non dimenticate di rivolgere loro un piccolo pensiero. Non vi costa nulla e nello stesso tempo potrete continuare a spostarvi in libertà e ad assaporare la vita del vostro giorno, magari insieme a chi amate. Anche questo è un modo per ringraziare Adolfo Ferrero e tutti gli altri Caduti per averci concesso di godercela.
giovedì 17 luglio 2008
OLTRE IL MURO CHE ABBIAMO DENTRO
Karl Unterkircher aveva 38 anni. Più che scalare una montagna, aveva come obiettivo sfidare un muro dentro di sé: quello della paura. Ognuno di noi ne ha davanti qualcuno, in una qualsiasi forma e materia, che sia di roccia, di ghiaccio, di carta o di parole. Karl, stella ascendente dell’alpinismo italiano, aveva scalato l’Everest e il K2 nella stessa stagione. Come un sub delle altezze estreme, riusciva ad arrivarci senza l’ossigeno, che ad una certa quota viene a mancare, e l’aria rarefatta ti può togliere il respiro e la vita. Il Nanga Parabat aveva spento 31 vite prima che nel luglio 1953 uno scalatore austriaco, Hermann Buhl, ne toccasse il limite divenuto quasi sacro, e lo profanasse per sempre. Cinquantacinque anni dopo gli 8.000 non fanno più parte delle cosiddette “sfide impossibili” per un uomo. Adesso la sfida da lanciare sta nel giungere in cima attraverso una parete: nessuno finora c’è riuscito. Ci saranno ancora dei tentativi inutili, ma prima o poi qualcuno ce la farà. Nelle ultime pagine elettroniche che Karl Unterkircher ha lasciato a tutti attraverso il suo diario pubblicato su Internet, aveva scritto il 13 luglio: “Poco prima di partire uscivo dal bar e ho inciampato in un vaso di fiori”. Scherzava sul fatto che qualcuno pensasse come diavolo poteva sfidare una montagna se non riusciva nemmeno a stare in piedi a livello del mare. Forse, col facile senno di poi e le ormai inutili ricerche di una logica nella morte di un alpinista scrupoloso come lui, è come se avesse ricevuto un sinistro preavviso di ciò a cui andava incontro. Il suo muro finale, prima che lui lo cercasse, lo stava già aspettando, con le sue insidie celate ma non troppo, come le scariche di ghiaccio, quegli stessi ostacoli di forza incontrastabile, soprattutto imprevedibile, di cui Karl aveva paura guardandoli dalla sua tenda, ma che non ha esitato ad affrontare, nonostante tutto gli dicesse che era meglio ritornare sui suoi passi. La sua morte ci ha ricordato che ovunque c’è sempre un rischio che ti attende per metterti alla prova di te stesso, ed esiste una conseguente responsabilità che ti devi assumere per contrastarlo e andare avanti, oltre. Anche se rimarrai solo e verrai abbandonato dai tuoi compagni improvvisati, di ventura, o perfino di sangue, perché oltre un certo limite nessuno ti può aiutare, perché deve badare già a sopravvivere. Molti uomini, la maggior parte dei quali rimarranno sconosciuti, nel momento in cui leggete queste righe stanno scalando altre montagne. Davanti a loro, con la stessa legittima paura di Karl, osservano una grande parete. Sanno, come lui, che non torneranno indietro, che alla fine rimarranno anche soli, eppure avanzeranno ugualmente verso di essa.
mercoledì 16 luglio 2008
GIUSTI PER COSA?
A pensarci ogni volta, mi sembra strano vivere in un Paese dove, sei hai meno di 40 anni, sei considerato (almeno sul piano lavorativo) “giovane”, mentre se conti più di 45 primavere ti passano, sempre lavorativamente parlando, per “vecchio”. Persiste, ed è purtroppo spesso riscontrabile coi fatti, una deteriorata mentalità secondo cui, se sei produttivamente “imberbe” (tra le 20 e le 39 candeline spente), cioè se manchi di una significativa (?) esperienza lavorativa rappresenti, ma soltanto a parole, una “risorsa da valorizzare”, mentre all’atto pratico costituisci più facilmente un problema da gestire. In poche parole, se ti trovi sulla fatidica soglia della cosiddetta “maturità lavorativa”, hai praticamente a tua disposizione un lustro di tempo (ovvero lo spazio temporale tra le 40 e le 44 tacche sulla tua spalla) per essere lavorativamente “giusto”. “Giusto” sì, ma per chi e cosa?
Non c’è da abbattersi, perché di certo il futuro è a favore di chi non si ferma a compiangersi. Occorre invece continuare a studiare, prepararsi, aver “fame” di approfondire le cose, tenere insomma aperta la propria mente, senza mai pensare di vivere di rendita con le nozioni acquisite fino ai 35 anni, perché la cultura è prima di tutto una difesa, ricordando che ogni giorno vengono allegramente tagliate molte ali a tanti giovani (di spirito, non solo di anagrafe) che propongono idee originali, innovative o finanche idiote, ma che almeno ci provano.
E allora, se avete tra i 20 e i 40 anni, se sentite dirvi in italiano o nel vostro dialetto: “Giovane, ma dove credi di andare?”, sappiate che siete molto probabilmente sulla strada giusta. O che almeno, ci state provando.
Non c’è da abbattersi, perché di certo il futuro è a favore di chi non si ferma a compiangersi. Occorre invece continuare a studiare, prepararsi, aver “fame” di approfondire le cose, tenere insomma aperta la propria mente, senza mai pensare di vivere di rendita con le nozioni acquisite fino ai 35 anni, perché la cultura è prima di tutto una difesa, ricordando che ogni giorno vengono allegramente tagliate molte ali a tanti giovani (di spirito, non solo di anagrafe) che propongono idee originali, innovative o finanche idiote, ma che almeno ci provano.
E allora, se avete tra i 20 e i 40 anni, se sentite dirvi in italiano o nel vostro dialetto: “Giovane, ma dove credi di andare?”, sappiate che siete molto probabilmente sulla strada giusta. O che almeno, ci state provando.
sabato 12 luglio 2008
COSA RESTA DI LLORET DE MAR
Sono le 4 di un’altra interminabile notte brava trasformata in giorno “como si hoy fuera el último día de mi vida”, e una ragazza italiana s’è persa in quest’ora, nello spazio estremo di una vita parallela e breve che ti sconvolge il ritmo biologico, il buon senso, la capacità di controllo, i tuoi freni inibitori, in quel torpore alcolico d’ordinanza che aleggia tra le lunghe teorie di luci stordenti e le adrenaliniche insegne dei giovani locali sul mare, con l’azzeramento del sonno, le facili sbronze adolescenziali, le pericolose calate, le favolose ciucche e le vaghe promesse di un qualsiasi posto di vacanza. Non si può proibire lo sballo, non è necessariamente un incubo che ti rende un relitto umano e ti inghiotte, anche se Lloret de Mar, con le sue innumerevoli porte aperte, le sue spiagge quasi inutili, la sua ebbrezza artificale e la sua notte dagli occhi sempre spalancati, resta un luogo sospeso nel vuoto come tanti altri dai prezzi accessibili che gli assomigliano e che sono dappertutto, in cui continuare a sognare la rivincita sulla quotidianità dove ci si fa e ci si disfa dimenticando talvolta le istruzioni fondamentali di noi stessi, tralasciando pezzi che una volta smontati non saremo in grado di ricomporre come prima. E’ una storia già scritta, quella di una ragazza normale di nome Francesca, che faceva cose semplici, che aveva aspirazioni legittime e nutriva i sogni d’una qualsiasi ragazza di 23 anni: moralmente integra, rigorosa il giusto, esuberante ed euforica il giusto, timorosa il giusto. Alla tua età non ci si può pentire per il proposito d’indossare il vestito più sexy, per la speranza d’incontrare nuove persone pur nella piacevole confusione del divertimento, anche il più banale, tra birre rancide e alitate canine. Non puoi separarti dall’idea di una contentezza da dividere spensieratamente in moltitudine solo perché puoi essere la vittima designata di un bruto nei paraggi. Certo, il divertimento ha le sue regole e la sua follìa. Però non è nemmeno condannabile lasciarsi prendere nelle nuvole della frivolezza per poco, perché tutti abbiamo tirato tardi la notte, riso irragionevolmente, ballato senza musica, e ci siamo sentiti in fusione anche fisica senza per questo permettere a chiunque di sfregiarci fuori e dentro. Nessuno può rubarti un momento di svago, magari facendoti bere un mix di alcol e droga per approfittarsi tranquillamente di te. La questione rimane piuttosto fino che punto divertirsi rimanendo vigili di sé stessi, col passo fermo sul confine tra coscienza e coglionaggine. Dopo, a parole, tutto è inutile e nulla ti restituisce la vita e forse la dignità che avevi. Nel dolore che si prova per una vita persa assurdamente, non c’è infatti alcunchè di nuovo a riscoprire l’essenza che scompare mentre il superfluo insiste, persiste, imperversa, e infierisce. Non c’entra nulla la condanna alla bramosìa scanzonata di buttarsi a capofitto nelle tenebre dove sono in agguato mille insidie, inclusa la morte. Nemmeno il fatto che esistano menti criminali, o di sconvolti dall’irresponsabilità dei loro atti, in perenne attesa di fronte all’acqua intorbidita con la loro invisibile canna da pesca. Perché c’è chi il tempo è capace di sospenderlo e di riprenderlo un istante dopo il divertimento, e chi si ostina a stordirsi e a stordire per trattenerlo, cercando pure di farlo scorrere all’indietro. E c’è sempre chi alzerà le spalle, dopo, e dichiarerà “in fondo se l’è cercata”. Ma essere presenti per affermarlo non ci rende migliori né ci conferisce il diritto inappellabile a ergerci a giudici degli altri. Che silenzio resta dopo una morte che non ha senso? O dopo un “errore”, come può penosamente blaterare uno stupido assassino dopo la cattura? Eppure è la stessa sensazione di impotenza, di assenza, d’inspiegabile pieno o come altro vogliamo chiamarlo, di quello che conosciamo tutti, perché non ci sono mai troppe parole per definirlo. Non è irrecuperabilmente ingenua o da condannare una ragazza che vuole soltanto staccare per un po’ dalla vita di sempre e divertirsi, in compagnia come da sola. Gli uomini lo sanno, e devono aver coraggio di ammettere che per una donna abbassare le difese per allegria non è per niente il segnale di un’autorizzazione a qualunque trasgressione, come all’umiliazione totale. Sesso, droga, sensazioni estreme. Circolano sempre troppi stereotipi, troppa retorica, troppe insinuazioni durante le celebrazioni delle persone che non possono rispondere. E’ così allora che la prima cosa che ci salta in mente e che diciamo è che te la sei andata a cercare, Federica, perché non sappiamo trovare risposte migliori ad un nostro possibile e irrimediabile comportamento idiota. Mentre dovremmo ricordarti e consigliarti, questa volta come tutte le altre in cui è capitato e purtroppo capiterà in un luogo di svago caotico e un po’ modaiolo, di non trascurare il tuo bicchiere vicino a gente che non conosci bene, scegliere di non restare sola nella notte, di fidarti meno, anche di te stessa, e di coprirti maggiormente, in confidenza verbale come fisica. E’ bastato fottutamente poco per perderti, e adesso che a te non serve più, chiederti scusa come a tutte le altre che dopo aver subìto un atto bestiale, e comunque a tradimento, devono addirittura difendersi perché qualcuno le bolla come provocatrici, mentre è chi le aggettiva ad aver paura di ammettere che basterebbe una sola variabile per voltare in bene un finale altrimenti tragico, e a tramutarlo in un racconto da riportare a casa con l’allegria della gioventù. Non è stata colpa tua, lo sappiamo, come di tutte le altre ragazze che perdono l’ingenuità e qualcos’altro di più importante, perché sarebbe altrimenti come riconoscere che è dipeso unicamente da te, e non da chi hai incontrato sulla tua strada. La nostra raccomandazione a restare comunque in guardia la prossima volta è come la lezione da accettare e riportare indietro, dimostrando a te stessa di averla compresa, perché vorremmo riparlarne, rivederti felice per lo scampato pericolo e sorridente com’eri e ti ricorderanno. E’ l’unico modo per pensarti finalmente a casa, tra chi ti ama e ti rispetta.
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