La Grande Guerra è anche tempo di creazione, miscelazione e diffusione
di un parlare che prima non c'era o, se c'era, voleva magari dire altro da
quello che da allora poi disse. La trincea è luogo delle storpiature
(volontarie) costruttrici di un lèssico gergale e per lo più rimasto confinato
nelle caserme, ma assestatosi anche nell'uso diffuso. I giornali per la truppa
come registratori delle novità e come palestra delle invenzioni a cavallo tra
spontaneità e letterarietà. È condotto in tutta questa miniera del vocabolario
militare nel primo conflitto mondiale lo scavo del vicentino Saverio Mirijello
fattosi curioso repertorio per appassionati (“1914-18. Parole dal fronte", Attilio Fraccaro editore, 268
pagine). C'è dentro molto di quel parlare e scrivere di ormai un
secolo fa che fu approfonditamente scandagliato per diversi aspetti da Paolo
Monelli (“Naja parla") e Mario Isnenghi (“Giornali
di trincea"). Si va dai reperti del burocratese grigioverde alle
spiegazioni sui modi di dire "con le
stellette", dalle tecnicità balistiche o nautiche ai rebus e
indovinelli apparsi su pubblicazioni come “La Voiussa", stampata per i soldati italiani in Albania, oppure su
“Il Montello", “Il Grappa", “La Trincea" che dovevano tener su il morale dopo la disfatta di Caporetto
dell'ottobre 1917. E poi ci sono singole parole, tante. Parole che già
esistevano, ma che allora entrarono nel vocabolario di tutti: naia, ghirba,
sbobba, gavetta, corvé. Parole che presero significati mai più perduti:
l'imboscato schivatore dei rischi bellici, il siluramento dei pezzi grossi, la
tradotta in corsa sui binari, il bunker come fortificazione, la pattuglia
armata in marcia, l'asso come grande pilota d'aereo, il cecchino che mirava
mortalmente. Parole che in tre anni e mezzo di mescolamento interregionale
furono scambiate e imparate da meridionali e settentrionali: scafato, ciofeca,
pirla, terrone, polentone. Parole che il popolo in divisa creava per scherzare
un po' su cose vissute a un passo dalla morte: la fifhaus dove la fifa portava
a ripararsi dalle bombe gli ufficiali meno valorosi; lo scarponigramma come
messaggio recapitato scarpinando a piedi sotto il fuoco nemico; la culiferica
per scendere veloci da una trincea tra la neve. A quest'ultima ironia è
dedicata l'unica illustrazione di un libro in cui quasi ogni citazione è
comunque un' immagine: in una pagina del foglio della I Armata-IX Divisione, “L'Astico", datato 10 novembre 1918, una settimana dopo la fine
della guerra, due alpini scivolano ("ma... salutami i pantaloni!") lungo una pista che li
allontana dalla prima linea e dalla più sanguinosa di tutte le guerre. (Antonio Trentin, “Il Giornale di Vicenza” del 10 giugno 2014)
martedì 10 giugno 2014
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