martedì 10 giugno 2014

LA FIFHAUS NELLE TRINCEE E LA SBOBBA COME PRANZO: IL LINGUAGGIO MILITARE NELLA GRANDE GUERRA

La Grande Guerra è anche tempo di creazione, miscelazione e diffusione di un parlare che prima non c'era o, se c'era, voleva magari dire altro da quello che da allora poi disse. La trincea è luogo delle storpiature (volontarie) costruttrici di un lèssico gergale e per lo più rimasto confinato nelle caserme, ma assestatosi anche nell'uso diffuso. I giornali per la truppa come registratori delle novità e come palestra delle invenzioni a cavallo tra spontaneità e letterarietà. È condotto in tutta questa miniera del vocabolario militare nel primo conflitto mondiale lo scavo del vicentino Saverio Mirijello fattosi curioso repertorio per appassionati (“1914-18. Parole dal fronte", Attilio Fraccaro editore, 268 pagine). C'è dentro molto di quel parlare e scrivere di ormai un secolo fa che fu approfonditamente scandagliato per diversi aspetti da Paolo Monelli (“Naja parla") e Mario Isnenghi (“Giornali di trincea"). Si va dai reperti del burocratese grigioverde alle spiegazioni sui modi di dire "con le stellette", dalle tecnicità balistiche o nautiche ai rebus e indovinelli apparsi su pubblicazioni come “La Voiussa", stampata per i soldati italiani in Albania, oppure su “Il Montello", “Il Grappa", “La Trincea" che dovevano tener su il morale dopo la disfatta di Caporetto dell'ottobre 1917. E poi ci sono singole parole, tante. Parole che già esistevano, ma che allora entrarono nel vocabolario di tutti: naia, ghirba, sbobba, gavetta, corvé. Parole che presero significati mai più perduti: l'imboscato schivatore dei rischi bellici, il siluramento dei pezzi grossi, la tradotta in corsa sui binari, il bunker come fortificazione, la pattuglia armata in marcia, l'asso come grande pilota d'aereo, il cecchino che mirava mortalmente. Parole che in tre anni e mezzo di mescolamento interregionale furono scambiate e imparate da meridionali e settentrionali: scafato, ciofeca, pirla, terrone, polentone. Parole che il popolo in divisa creava per scherzare un po' su cose vissute a un passo dalla morte: la fifhaus dove la fifa portava a ripararsi dalle bombe gli ufficiali meno valorosi; lo scarponigramma come messaggio recapitato scarpinando a piedi sotto il fuoco nemico; la culiferica per scendere veloci da una trincea tra la neve. A quest'ultima ironia è dedicata l'unica illustrazione di un libro in cui quasi ogni citazione è comunque un' immagine: in una pagina del foglio della I Armata-IX Divisione, “L'Astico", datato 10 novembre 1918, una settimana dopo la fine della guerra, due alpini scivolano ("ma... salutami i pantaloni!") lungo una pista che li allontana dalla prima linea e dalla più sanguinosa di tutte le guerre. (Antonio Trentin, “Il Giornale di Vicenza” del 10 giugno 2014)

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