7 Settembre 2008. Ci sono inferni spenti le cui braci continuano a bruciare nel nostro animo. In una domenica di pallido sole sono entrato nel campo di Auschwitz e ho visitato quello gemello di Birkenau. Sono arrivato ad un muro davanti a cui vennero fucilate almeno 70.000 persone, però col fondo rinforzato, altrimenti fuori si sarebbe potuto sentire il rumore degli spari; ho visto i forni crematori, le stanze affumicate e le impronte di chi cercava di grattare il muro per sciogliere il ghiaccio dai sottili passaggi per l’aria consentita a 50 esseri umani; ho visto la cella di Massimiliano Maria Kolbe, canonizzato il 10 ottobre 1981 da Giovanni Paolo II; ho sostato di fronte a cubicoli in cui dopo 10-12 ore di lavori forzati venivamo rinchiuse insieme, senza potersi sedere e praticamente una addosso all’altra, 4-5 persone perché così morissero più rapidamente; mi hanno mostrato la stanza in cui vennero trovate una cinquantina di donne morte quando entrarono i russi il 26 gennaio 1945; ho visto la stanza delle riunioni della Gestapo; le colombaie e i cassoni di legno in cui dovevano dormire ammassati i prigionieri; ho visto montagne di scarpe, occhiali, protesi; osservando la vetrina dietro cui c’erano milioni di capelli mi hanno spiegato che era stato calcolato quanti ne porti mediamente un uomo, per determinare meglio i cicli di raccolta per lo sfruttamento industriale; che in una settimana, al massimo regime, gli aguzzini ricavavano 42 kg di oro dai denti delle vittime: nelle condizioni fisiche in cui versavano ed erano costretti a resistere i prigionieri, i nazisti preventivavano a ciascuno più o meno 3 mesi di vita; mi hanno spiegato che con 8 scatole di gas si uccidevano 2.000 persone e che si cercava di risparmiare anche sulla quantità utilizzata delle camere; ho visto le copie degli appunti e dei rapporti meticolosi dattiloscritti dagli ufficiali che pianificavano al meglio una perfetta macchina di umiliazione, sterminio, annientamento.
Di fianco a me sono scorse le immagini di migliaia di persone con volti che incontriamo anche oggi lungo una qualsiasi strada: c’erano perfino bei visi da attrici ed attori.
Sono salito sulla torre centrale da cui qualcuno controllava con fierezza un regno di lucida follìa; ho visto un militare dal fisico sportivo ed aitante ridere mentre un vecchio, barcollante, si stava trascinando verso la morte perché non poteva lavorare e dunque non serviva più a nessuno; ho visto un'immagine incredibilmente scattata di nascosto, col piccolo apparecchio sotto la veste, di ciò che vedeva una donna che stava per essere gasata e i messaggi scritti e nascosti sotto terra perché qualcuno un giorno sapesse; sono entrato nelle baracche-latrine dove la minima riservatezza non esisteva più, dove non c'era più differenza con le bestie, dove i nazisti pensavano di sfruttare persino i bio-gas prodotti dai prigionieri.
Ho attraversato questi allucinanti non-luoghi, ho ascoltato ancora dell'altro, e non ho nemmeno la forza di descrivere che cosa ho provato, perché non esistono parole adatte, ma solo il silenzio, per tentare di esprimere il peso d’angoscia che mi è sceso dentro, ma so che non potrò dimenticarmi, perché non lo voglio, il terrore negli occhi di un bambino, uno per tutti, paffutello ma bellissimo, mentre gli scattavano le foto identificative perché avevano calcolato che, dopo due settimane, a causa degli stenti, i suoi lineamenti, come per quelli di tutti gli altri condannati a morire, sarebbero stati irriconoscibili, e ho scelto di ricordarmi per sempre di lui. Non ho fatto in tempo a leggere il tuo nome, piccolo, ma non temere, tu non sparirai, come tutti gli altri cuccioli impauriti che si tenevano per mano mentre andavano alle docce.
I carcerieri erano gli stessi che davanti a Padre Kolbe disposto a sacrificarsi al posto di un padre di famiglia non sapevano come reagire: impietosi davanti a gente che voleva vivere, impreparati davanti a persone che sceglievano di morire.
Mi sono tornate in mente le ultime parole di un partigiano italiano davanti al plotone d’esecuzione: “Voi mi uccidete, ma siete voi ad avere paura”. Perché i disperati erano loro, i carcerieri.
Di fianco a me sono scorse le immagini di migliaia di persone con volti che incontriamo anche oggi lungo una qualsiasi strada: c’erano perfino bei visi da attrici ed attori.
Sono salito sulla torre centrale da cui qualcuno controllava con fierezza un regno di lucida follìa; ho visto un militare dal fisico sportivo ed aitante ridere mentre un vecchio, barcollante, si stava trascinando verso la morte perché non poteva lavorare e dunque non serviva più a nessuno; ho visto un'immagine incredibilmente scattata di nascosto, col piccolo apparecchio sotto la veste, di ciò che vedeva una donna che stava per essere gasata e i messaggi scritti e nascosti sotto terra perché qualcuno un giorno sapesse; sono entrato nelle baracche-latrine dove la minima riservatezza non esisteva più, dove non c'era più differenza con le bestie, dove i nazisti pensavano di sfruttare persino i bio-gas prodotti dai prigionieri.
Ho attraversato questi allucinanti non-luoghi, ho ascoltato ancora dell'altro, e non ho nemmeno la forza di descrivere che cosa ho provato, perché non esistono parole adatte, ma solo il silenzio, per tentare di esprimere il peso d’angoscia che mi è sceso dentro, ma so che non potrò dimenticarmi, perché non lo voglio, il terrore negli occhi di un bambino, uno per tutti, paffutello ma bellissimo, mentre gli scattavano le foto identificative perché avevano calcolato che, dopo due settimane, a causa degli stenti, i suoi lineamenti, come per quelli di tutti gli altri condannati a morire, sarebbero stati irriconoscibili, e ho scelto di ricordarmi per sempre di lui. Non ho fatto in tempo a leggere il tuo nome, piccolo, ma non temere, tu non sparirai, come tutti gli altri cuccioli impauriti che si tenevano per mano mentre andavano alle docce.
I carcerieri erano gli stessi che davanti a Padre Kolbe disposto a sacrificarsi al posto di un padre di famiglia non sapevano come reagire: impietosi davanti a gente che voleva vivere, impreparati davanti a persone che sceglievano di morire.
Mi sono tornate in mente le ultime parole di un partigiano italiano davanti al plotone d’esecuzione: “Voi mi uccidete, ma siete voi ad avere paura”. Perché i disperati erano loro, i carcerieri.
1 commento:
Quella di visitare un campo di concentramento è un'esperienza forte e triste, ma che tutti dovremmo fare per non dimenticare la nostra storia...per apprezzare quello che siamo e che abbiamo. Sono venuta a conoscenza di una poesia scritta da un bambino prigioniero nel 1941... Mi ha rabbrividito vedere la forza nascosta in questo bimbo...sicuramente consapevole del suo destino, ma con questa voglia di comunicare un messaggio di speranza ...Dovrebbe far riflettere quelle persone che non sanno accontentarsi...
L'autore si identifica in un uccello che vola...
"Chi s’aggrappa al nido
non sa che cos’è il mondo,
non sa quello che tutti gli uccelli sanno
e non sa perché voglia cantare
il creato e la sua bellezza.
Quando all’alba il raggio del sole
illumina la terra
e l’erba scintilla di perle dorate,
quando l’aurora scompare
e i merli fischiano tra le siepi,
allora capisco come è bello vivere.
Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza
quando cammini tra la natura
per intrecciare ghirlande coi tuoi ricordi:
anche se le lacrime ti cadono lungo la strada,
vedrai che è bello vivere".
Buona domenica Gioia
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