Come questa pietra è il mio pianto che non si vede. La
morte si sconta vivendo. È significativa la citazione dalla poesia Sono una
creatura di Giuseppe Ungaretti, posta all'inizio del nuovo romanzo dei
vicentini Ruggero Dal Molin e Saverio Mirijello Quello che saremmo stati
(Attilio Fraccaro editore, Bassano del Grappa). Ungaretti, che si arruolò
volontario durante il primo conflitto mondiale sul Carso e che da quella
tragica esperienza attinse per scrivere alcuni dei versi più toccanti della
poesia italiana - come la celebre San Martino del Carso ("Ma nel cuore nessuna
croce manca. È il mio cuore il paese più straziato") è forse lo scrittore
italiano che ha saputo descrivere al meglio, con il linguaggio breve e intenso
della poesia, un dramma per molti versi ancora oggi indicibile. Lo stesso
dramma che i due vicentini hanno cercato di narrare attraverso una storia
realistica, ambientata in un Veneto avviato alla rinascita dopo le tragedie dei
conflitti mondiali. Un avvocato vicentino è alla ricerca della verità sul padre
mai conosciuto, morto nel corso della Grande Guerra: nei giorni
dell'inconsolabile dolore dovuto alla perdita dell'amata madre, l'uomo inizia
una ricerca che lo porta a scoprire un inaspettato risvolto del quale non era
mai venuto a conoscenza. "Io non ho mai conosciuto mio padre, la guerra me lo ha
portato via quando ero ancora troppo piccolo. Di lui non ho alcuna memoria,
nemmeno quella di mia madre. Il destino tuttavia, se con una mano ti carpisce
gli affetti più cari, con l'altra a volte te ne dona degli altri, e la vita col
tempo mi ha saputo regalare una moglie stupenda e due splendidi figli. Ora
però, alle soglie dei miei 50 anni, ecco all'improvviso, dal passato, una
lettera con una rivelazione sconvolgente..."
Il romanzo storico firmato da Dal Molin e Mirijello è
ambientato negli anni 50 tra Vicenza, Bassano, l'Altopiano dei 7 Comuni e il
Monte Ortigara. Ne esce un quadro di un Veneto più povero, ma anche più
semplice e meno complicato di oggi, in un libro ricco di storia ma anche di
storie, per non dimenticare e per comprendere come superare il passato: la
storia di un uomo che potrebbe essere uno di noi, e di una donna che
rappresenta al meglio la forza femminile. La trama sembra evocare la necessità
di far rivivere quella parte di storia riletta dal basso, che ha permeato la
nostra coscienza collettiva e oggi rinasce nei cuori di tanti, portandoci il
ricordo degli anni migliori, frutto del sacrificio di quanti spesero la loro
giovane vita nel sacrificio estremo in difesa della nazione. Gli autori
rievocano, con commossa partecipazione ed empatia, episodi storici e al tempo
stesso personali ed umanissimi, come la lettera testamento indirizzata ai
genitori dal Sottotenente Adolfo Ferrero, piemontese morto sull'Ortigara, in
cui si legge "un figlio morto per la Patria non è mai morto". O come
la testimonianza sofferta di un alpino bassanese che, ricordando l'Ortigara
come il "calvario degli alpini", confessa che più ancora della guerra
in sé erano altri elementi a pesare: la sete, ad esempio, vera e propria piaga
per i soldati al fronte (come si può anche vedere in una sezione della mostra
sulla Grande Guerra attualmente in corso al Museo Civico di Vicenza). Il vero
pregio del libro sta, a nostro avviso, nel messaggio chiaro e forte che forse
la vera Storia non la fanno tanto le battaglie o le ricorrenze, ma le persone.
E tra queste ci sono coloro che hanno vissuto il conflitto in prima lina, ma
anche chi la guerra l’ha vista da lontano. Come le donne che, da casa,
attendevano i loro mariti, o i figli che ogni giorno si affacciavano alla
finestra con la speranza di vedere il padre o il fratello tornare dai campi di
battaglia. Così gli autori, raccontando la storia di un uomo alla ricerca della
verità sul padre che non ha mai conosciuto per colpa della guerra, raccontano
anche un conflitto interiore, un viaggio nel tempo e nella storia attraverso i
luoghi che, oggi, sono rimasti un simbolo del nostro territorio. Fino a
giungere all'ultimo, commosso e memorabile capitolo in cui sembrano indicarci
la via di una fraterna e possibile redenzione, al di là delle guerre e delle
ideologie. Una sorta di pietas che supera qualsiasi razionalità, qualsiasi
conflitto, per fondersi in un abbraccio che simboleggia un messaggio di
autentica e ritrovata pace. Un simbolo da tenere a memoria anche per le tante
guerre che ancora oggi infestano questo nostro complicato mondo.
Abbiamo incontrato Saverio Mirijello e dialogato con lui.
Com’è nato questo romanzo a quattro mani con Dal Molin?
"È un libro nato da un’idea condivisa con Ruggero di
un testo che parlasse non soltanto della guerra, ma di come le persone ne
subiscono la crudeltà, sia direttamente, come i soldati al fronte, sia sul
tragico piano delle conseguenze, come i civili. In questo senso la Grande
Guerra fu purtroppo un conflitto moderno anche per il coinvolgimento attivo
delle popolazioni. Il nostro lavoro - che ci ha impegnati tre anni, dapprima
per la fase di documentazione e quindi per la scrittura - è stato un ricordo di
tutta la gente che ha patito per un’intera vita il dolore di un’assenza".
La vicenda valorizza anche la figura femminile, come nel
rapporto di profondo amore del protagonista con la moglie?
"Quella di creare un personaggio femminile è stata
un’idea precisa che avevo. Il fondamentale ruolo delle donne nella Grande
Guerra, come sacrificio e come impegno, per lungo tempo non è mai stato posto
sotto la giusta luce. Sonia, la moglie del protagonista, è quindi volutamente
un omaggio alle donne, alla loro determinazione, alla capacità di rispondere
sempre presente cercando comunque di porre ai danni creati dall’uomo, e alla
capacità femminile di riuscire a farci riflettere, anche su noi stessi e sui
nostri limiti".
La ricerca storica del protagonista diventa anche un
percorso personale di consapevolezza alla ricerca di un padre scomparso troppo
presto?
"Sì. Il protagonista si è affermato nel campo
professionale, è felicemente padre di famiglia, ma in fondo all’animo ha un
vuoto. Ad ormai cinquant’anni pensava di averlo colmato, ma ben presto si
accorgerà che quella ferita interiore non si era mai del tutto rimarginata.
Inizierà così a cercare le tracce di quel padre che gli è mancato, trovando
prima di ogni altra cosa la forza dentro di sé".
Lei nelle sue conferenze afferma che ci sono ancora molti
aspetti della Grande Guerra da esplorare: vuol dire che la sua ricerca storica
continuerà?
"Sono un ricercatore storico per passione e per
convinzione. La prima motivazione viene dalla mia passione per
l’approfondimento degli eventi, per capire il presente partendo dallo studio
del passato, mentre la seconda viene dal fatto che la verità storica, spesso,
viene scritta dai vincitori o da qualcuno che intende far sapere soltanto la
verità ufficiale, di comodo, non quella effettiva dei fatti accaduti. Spero di
non dover mai smettere di ricercare la verità in questo senso. Ma soprattutto,
ed è quanto sto cercando di portare avanti da tempo col mio contributo
personale, spero che le nuove generazioni raccolgano il testimone di noi
ricercatori e studiosi della storia e cultura territoriale e portino avanti
questo impegno".
Nel finale lei e Dal Molin lanciate un messaggio di pace
universale: è una speranza per il futuro?
"È un messaggio di pace non generico, affinché
l’uomo non commetta ancora i tragici errori del passato. In quanto tale, la
storia ci condanna come esseri ripetitivi. Forse è soltanto un’illusione, ma
abbiamo il dovere di continuare a credere in un futuro migliore, soprattutto
senza la guerra come risposta ultima alla soluzione delle controversie, al
perseguimento d’interessi di parte e come ambizione assurda di una supremazia
assoluta dell’uomo sui suoi simili".
(nr. 45 anno XXI del 17 dicembre 2016)
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