Sydney Pollack, grande attore (era un perfetto caratterista) e regista, ma soprattutto cineasta completo (alle prime due figure univa quelle di scrittore, sceneggiatore e produttore), spentosi a Los Angeles lunedì sera, apparteneva ad una scuola che stiamo perdendo per sempre. «Luchino Visconti mi parlò a lungo di Verona quando collaborai ai dialoghi di "Senso". Non è stata una fortuna da poco lavorare con un maestro assoluto, non il solo che l’Italia abbia dato al cinema»: intervistato il 3 ottobre 1997 a Verona da Donatello Bellomo, ricordò così uno dei maestri del cinema italiano ed un'esperienza filmica del 1954 le cui riprese in interni coinvolsero anche la provincia di Vicenza. Ma anche Pollack sapeva fare bene il suo mestiere. Di origini russo-ebraiche, era considerato tra gli ultimi umanisti di una Hollywood che aveva contribuito in maniera determinante a far cambiare nei ruggenti anni a cavallo del ’68. Fu autore di film di successo, talvolta interessanti e belli, quasi sempre tratti da romanzi. Uno di quei registi che mettono al centro dei loro racconti per immagini le storie vissute degli uomini, delle donne e i loro sentimenti. Un successo straordinario fu "La mia Africa", con Meryl Streep e Robert Redford: costato 30 milioni di dollari ne incassò 90 in un solo anno aggiudicandosi ben 7 Oscar. Se c'è da dire che Pollack si godeva anche i frutti dei grandi successi degli anni ’70 e ’80 (egli figurava nel ristrettissimo club dei registi dalla mano d’oro che avevano superato i 500 milioni di dollari di incasso), è pure vero che negli ultimi anni, dominati da "effetti speciali" più che da "affetti speciali", da esseri mutanti e replicanti invece che da umani, le sue opere erano scomparse. Pochi come lui possedevano la capacità di ottenere il meglio dagli attori, lavorando di bulino sulle loro interpretazioni, ed è forse qui la chiave dei suoi film migliori.
Dei film confezionati, potrete leggere in tutti i siti di cinema e di storia del cinema. Tra i capolavori che avrebbe invece voluto girare, Pollack citò «Quarto potere» di Orson Welles, «Otto e mezzo» di Fellini, «Il generale della Rovere» di Rossellini e «Ladri di biciclette» di De Sica. «Sono i libri di testo di ogni regista. - spiegò in quell'occasione - Credo che "La Grande Guerra" di Monicelli eguagli "Orizzonti di gloria" di Kubrick e "La grande illusione" di Renoir. Per non dire di "Le mani sulla città" di Francesco Rosi, un’opera di sconvolgente modernità. L’interpretazione di Rod Steiger è da antologia».
Alla domanda «che cos’è il cinema ?», egli rispose scuotendo la testa. «Me lo chiedo spesso domandandomi cosa sto facendo. Credo che, insieme al jazz, sia la più importante forma d’arte del Novecento. L’arte non deve rappresentare né il bello né il vero né la natura ma l’ambiguo dell’esistenza, il suo enigma e il suo mistero». Una delle più belle risposte su questo tema.
Sidney Poitier, Anne Bancroft, Natalie Wood, Burt Lancaster negli anni ’60. E poi Jane Fonda, Barbra Streisand, Robert Mitchum, Faye Dunaway, Al Pacino, Paul Newman, Dustin Hoffman, Jessica Lange, Meryl Streep, Tom Cruise, Harrison Ford ed ultima solo in ordine di tempo, Nicole Kidman. Non fosse soltanto per i film, pochi possono vantare di aver collaborato con tante stelle dello spettacolo come Pollack. Ha chiuso con un documentario su Frank Gehry, creatore di sogni, il grande architetto che sfida la materia e la piega secondo la sua ispirazione. Ho visto questa sua ultima opera a Villa Caldogno, qualche settimana fa, nel corso di una serata in programma per la seconda edizione di "Scienza e società si incontrano nell'architettura". Lavoro ben girato e confezionato, ma non eccelso: Pollack ha saputo fare decisamente di meglio nel corso della sua onorata carriera artistica, rievocando progetti di vita, ideali, speranze, creando a sua volta altri bei sogni, scavando nella psicologia dei personaggi, riuscendo a proporre anche un intelligente cinema d'impegno sociale.
Questo è il mio omaggio ad uno dei miei registi preferiti, al suo metodo, alla sua misura e alla sua sensibilità. Ciao Pollack, mancherai anche a me.
mercoledì 28 maggio 2008
lunedì 19 maggio 2008
TROPPE CROCI SULL’ASFALTO
Esistono flagelli che colpiscono con regolare spietatezza e non dipendono direttamente dalle guerre, dalle carestie o dalle malattie. Come un invisibile maglio, possono colpire chiunque, in ogni momento, a freddo. Tra questi falciatori di vite, ci sono gli incidenti stradali. Per restarne vittime non serve nemmeno essere alla guida di un’automobile: in Italia ogni anno muoiono oltre 600 pedoni. Vale a dire circa 11,5 vittime ogni milione di abitanti.
Nonostante le apparenze, si tratta di un numero tristemente elevato: sono infatti dati del bollettino di una impronunciabile guerra intestina che non cessa di affliggerci e di riscuotere puntualmente il suo tragico tributo di sangue. E’ quindi doveroso soffermarsi per qualche momento a riflettere su tali cifre.
Se si esaminano più in dettaglio le circostanze che portano ogni 12 mesi l’Italia ad accusare la scomparsa di un paese dalle non trascurabili dimensioni, infatti, i contorni si fanno allarmanti: il 12,4% delle vittime di incidenti stradali sono persone investite, e il 29,3% di queste perde la vita sulle strisce pedonali. Si tratta soltanto di una tragica fatalità?
Negli ultimi anni, secondo dati dell’ACI, siamo stati l’unico Paese in cui la percentuale tra i pedoni morti sulle strisce, rispetto a quelli deceduti negli incidenti stradali, è incrementata.
E sono sempre di più gli anziani: il 55% delle vittime ha più di 70 anni.
La situazione dovrebbe fortunatamente cambiare presto: l’Unione Europea sta studiando nuovi standard di sicurezza per la protezione dei pedoni che dovrebbero entrare in vigore nel 2012. Intanto, gli automobilisti italiani devono prestare più attenzione ai passanti, anche quando non attraversano sulle strisce pedonali.
COME LE MULTE O I PROVVEDIMENTI COMUNI. Gli incidenti stradali nella mentalità italiana spesso sono come le multe da pagare o le soluzioni da intraprendere per tutti: questioni degli altri. Ma se tra coloro che hanno perso la vita sull’asfalto risultano in larga parte esserci giovani tra i 18 e i 30 anni, ciò non può restare propriamente un problema lontano dalla nostra pur piccola realtà quotidiana. Anche quest’anno, secondo i rilievi, la stragrande maggioranza delle vittime è deceduta tra le 22 e le 6 del mattino, quando il piede sull’acceleratore è più pesante e la mente un po’ annebbiata, quasi sempre a causa della stanchezza, in non pochi casi per l’effetto di farmaci e/o sostanze che alterano lo stato psico-fisico, non poco frequentemente come drammatica conseguenza di quanto precedentemente bevuto.
In qualsiasi momento la folle corsa di un’auto guidata come un bolide da corsa o come se ci si trovasse in un videogioco, può terminare contro un albero o un guard-rail. E la fluttuazione statistica in più o in meno del numero di vittime, da un anno all’altro, non cambia la sostanza del problema, che sta lentamente assumendo le maledette sembianze di una lunga e ininterrotta scia di sangue.
VICENZA E LE MORTI SULL’ASFALTO. La comunità di Vicenza non è immune dai mortali fendenti di questa invisibile lama. Nella prima metà di maggio, in una sola settimana, in seguito ad incidenti occorsi sulle strade di questa provincia, sono decedute 9 persone. Ascoltate le storie di queste e di tutte le altre vittime dall’inizio dell’anno, qualche decina, raccontate dai familiari, dagli amici, dai conoscenti. Molto spesso si tratta di donne e uomini di certo non sprovveduti, difficilmente colpiti da improvvisi malori, altrettanto dubbiosamente indeboliti dall’assunzione di sostanze nocive. Eppure i soccorritori e i sanitari spesso capiscono di essere arrivati in ritardo.
Che cosa ci sta succedendo? E’ una scia di sangue che nessuno può accettare. Rimanere indifferenti o passivi ascoltatori costituirebbe un insulto alle famiglie distrutte dal dolore. In molti di questi casi di cronaca non si tratta affatto di droga e alcol: l’eccessiva velocità rispetto ai riflessi del guidatore, la sottovalutazione dei pericoli circostanti e lo stato delle strade continuano a contribuire ad incrementare paurosamente il numero delle vittime.
LA PREVENZIONE DA SOLA NON BASTA. La polizia stradale dispone di migliaia di agenti, anche se al computo totale risultano sempre meno unità rispetto all’organico previsto e richiesto, e molte pattuglie vengono concentrate sulle autostrade. Sono uomini che svolgono un grande lavoro di tutela, ma le Statali e Provinciali, dove periscono la maggior parte dei nostri ragazzi, restano purtroppo ancora piste da corsa senza regole quando non sono addirittura percorsi piuttosto malandati. Sulle autostrade, da quando si è fatto ricorso ai cosiddetti “tutor”, dispositivi di controllo che calcolano la velocità media delle auto, gli incidenti mortali si sono praticamente dimezzati: alcune misure preventive dunque funzionano, ma è come arginare una piena montante con dei tronchi. Non si può pensare di risolvere la questione disseminando divise, auto, etilometri e precursori lungo tutti i percorsi.
Se i controlli servono, ciò che deve realmente cambiare è il nostro comune modo di pensare.
Le regole del codice della strada vanno rispettate non tanto per evitare le sanzioni o il ritiro dei punti dalla patente, ma perché consentono di salvare la nostra vita e quella degli altri.
Un dirigente della Polstrada ha affermato nei giorni scorsi: “Noi andiamo nelle scuole, spieghiamo ai ragazzi che l’aspetto repressivo è quello che ci interessa di meno, perché vogliamo solo consigliarli a prevenire la morte o tremende sofferenze”.
La sicurezza stradale è una priorità da risolvere nell’Italia del 2008, ma in campagna elettorale è stato un tema elegantemente ignorato da tutti. Auguriamoci almeno che le troppe notizie che puntualmente leggiamo o ascoltiamo servano a renderci più partecipi del fatto che ognuno di noi, una volta avviatosi lungo una strada pubblica, non è responsabile soltanto della sua vita.
Nonostante le apparenze, si tratta di un numero tristemente elevato: sono infatti dati del bollettino di una impronunciabile guerra intestina che non cessa di affliggerci e di riscuotere puntualmente il suo tragico tributo di sangue. E’ quindi doveroso soffermarsi per qualche momento a riflettere su tali cifre.
Se si esaminano più in dettaglio le circostanze che portano ogni 12 mesi l’Italia ad accusare la scomparsa di un paese dalle non trascurabili dimensioni, infatti, i contorni si fanno allarmanti: il 12,4% delle vittime di incidenti stradali sono persone investite, e il 29,3% di queste perde la vita sulle strisce pedonali. Si tratta soltanto di una tragica fatalità?
Negli ultimi anni, secondo dati dell’ACI, siamo stati l’unico Paese in cui la percentuale tra i pedoni morti sulle strisce, rispetto a quelli deceduti negli incidenti stradali, è incrementata.
E sono sempre di più gli anziani: il 55% delle vittime ha più di 70 anni.
La situazione dovrebbe fortunatamente cambiare presto: l’Unione Europea sta studiando nuovi standard di sicurezza per la protezione dei pedoni che dovrebbero entrare in vigore nel 2012. Intanto, gli automobilisti italiani devono prestare più attenzione ai passanti, anche quando non attraversano sulle strisce pedonali.
COME LE MULTE O I PROVVEDIMENTI COMUNI. Gli incidenti stradali nella mentalità italiana spesso sono come le multe da pagare o le soluzioni da intraprendere per tutti: questioni degli altri. Ma se tra coloro che hanno perso la vita sull’asfalto risultano in larga parte esserci giovani tra i 18 e i 30 anni, ciò non può restare propriamente un problema lontano dalla nostra pur piccola realtà quotidiana. Anche quest’anno, secondo i rilievi, la stragrande maggioranza delle vittime è deceduta tra le 22 e le 6 del mattino, quando il piede sull’acceleratore è più pesante e la mente un po’ annebbiata, quasi sempre a causa della stanchezza, in non pochi casi per l’effetto di farmaci e/o sostanze che alterano lo stato psico-fisico, non poco frequentemente come drammatica conseguenza di quanto precedentemente bevuto.
In qualsiasi momento la folle corsa di un’auto guidata come un bolide da corsa o come se ci si trovasse in un videogioco, può terminare contro un albero o un guard-rail. E la fluttuazione statistica in più o in meno del numero di vittime, da un anno all’altro, non cambia la sostanza del problema, che sta lentamente assumendo le maledette sembianze di una lunga e ininterrotta scia di sangue.
VICENZA E LE MORTI SULL’ASFALTO. La comunità di Vicenza non è immune dai mortali fendenti di questa invisibile lama. Nella prima metà di maggio, in una sola settimana, in seguito ad incidenti occorsi sulle strade di questa provincia, sono decedute 9 persone. Ascoltate le storie di queste e di tutte le altre vittime dall’inizio dell’anno, qualche decina, raccontate dai familiari, dagli amici, dai conoscenti. Molto spesso si tratta di donne e uomini di certo non sprovveduti, difficilmente colpiti da improvvisi malori, altrettanto dubbiosamente indeboliti dall’assunzione di sostanze nocive. Eppure i soccorritori e i sanitari spesso capiscono di essere arrivati in ritardo.
Che cosa ci sta succedendo? E’ una scia di sangue che nessuno può accettare. Rimanere indifferenti o passivi ascoltatori costituirebbe un insulto alle famiglie distrutte dal dolore. In molti di questi casi di cronaca non si tratta affatto di droga e alcol: l’eccessiva velocità rispetto ai riflessi del guidatore, la sottovalutazione dei pericoli circostanti e lo stato delle strade continuano a contribuire ad incrementare paurosamente il numero delle vittime.
LA PREVENZIONE DA SOLA NON BASTA. La polizia stradale dispone di migliaia di agenti, anche se al computo totale risultano sempre meno unità rispetto all’organico previsto e richiesto, e molte pattuglie vengono concentrate sulle autostrade. Sono uomini che svolgono un grande lavoro di tutela, ma le Statali e Provinciali, dove periscono la maggior parte dei nostri ragazzi, restano purtroppo ancora piste da corsa senza regole quando non sono addirittura percorsi piuttosto malandati. Sulle autostrade, da quando si è fatto ricorso ai cosiddetti “tutor”, dispositivi di controllo che calcolano la velocità media delle auto, gli incidenti mortali si sono praticamente dimezzati: alcune misure preventive dunque funzionano, ma è come arginare una piena montante con dei tronchi. Non si può pensare di risolvere la questione disseminando divise, auto, etilometri e precursori lungo tutti i percorsi.
Se i controlli servono, ciò che deve realmente cambiare è il nostro comune modo di pensare.
Le regole del codice della strada vanno rispettate non tanto per evitare le sanzioni o il ritiro dei punti dalla patente, ma perché consentono di salvare la nostra vita e quella degli altri.
Un dirigente della Polstrada ha affermato nei giorni scorsi: “Noi andiamo nelle scuole, spieghiamo ai ragazzi che l’aspetto repressivo è quello che ci interessa di meno, perché vogliamo solo consigliarli a prevenire la morte o tremende sofferenze”.
La sicurezza stradale è una priorità da risolvere nell’Italia del 2008, ma in campagna elettorale è stato un tema elegantemente ignorato da tutti. Auguriamoci almeno che le troppe notizie che puntualmente leggiamo o ascoltiamo servano a renderci più partecipi del fatto che ognuno di noi, una volta avviatosi lungo una strada pubblica, non è responsabile soltanto della sua vita.
domenica 11 maggio 2008
RICORDO DELL' 81.a ADUNATA NAZIONALE DEGLI ALPINI (BASSANO DEL GRAPPA, 10 MAGGIO 2008)
venerdì 9 maggio 2008
Iscriviti a:
Post (Atom)